venerdì 4 febbraio 2011

Il Lavabottiglie di Duchamp

Già nel 1913 ebbi la felice idea di montare una ruota di bicicletta su uno sgabello di cucina e di osservarla mentre girava. Decisamente si trattava di un’opera d’arte! A New York, nel 1915, comprai in un negozio di ferramenta una pala per spalare la neve sulla quale scrissi In advance of a broken arm. Circa in quell’epoca mi venne in mente la parola ready-made per definire questo genere di lavori”Così ebbe a dichiarare in seguito Marcel Duchamp mentre teorici dell’arte e estetologi s’arruffarono non poco i capelli nei decenni che seguirono alla ricerca di contenuti nelle sue opere che giustificassero il loro filosofare. Conoscendo personalmente Duchamp e la sua alchemica predisposizione alla provocazione, posso assicurare che avrebbero potuto spendere molte meno parole per cercare di etichettarlo! Si pensi ad esempio all’urinatoio capovolto che l’artista intitolerà Fountain, nient’altro che un'opera d'arte ludica ed ironica, ma molti critici sostengono che simboleggerebbe l'utero femminile e non a caso Duchamp l'avrebbe firmata con lo pseudonimo R. Mutt, pretesa traslitterazione evocativa del sostantivo tedesco "mutter", che significa "madre", mentre la realtà più banalmente rimandava a un produttore di sanitari... I ready-mades misero in scacco matto le categorie dell’arte con la mossa del ridicolo nella quale il pensiero artistico entrava in competizione con la velocità del gesto (Marcel Duchamp e Man Ray, sodali nell’arte e amici nella vita, avevano sempre urgenza di ritornare ad occupazioni di rito epicureo). Erano gli anni della grande esplosione creativa della "Ville Lumière". Duchamp, se non era alla Coupole a giocare a scacchi per vincere, bazzicava con Man Ray bistrot, brasserie e locali notturni di Montparnasse. Il primo lasciava in sospeso le sue partite giocate anche su scacchiere multiple, il secondo abbandonava per ore gli esperimenti sui rayogrammes nel suo studio fotografico (forse sono le impressioni fotografiche che gli sono venute meglio, aiutate dall’azzardo del caso). Alla sua prima apparizione sul palco sghembo del Jockey tutti e due misero gli occhi su Kiki de Montparnasse e con loro tutti i clienti del locale notturno, quelli in stato di coscienza, di semi incoscienza o ebbrezza profonda. Ma l'americano, più veloce d'azione che di pensiero rispetto a Duchamp, forse perché privo di retaggi classici, l'impalmò in anticipo proponendole di posare per un suo fotoritratto. Una esemplificazione della sua rivoluzionaria visione della fotografia avvenne di lì a poco nella camera di un alberghetto a fianco, partendo con l'approfondire la conoscenza del soggetto da mettere in posa. Fu così che Kiki divenne la musa ispiratrice di Man Ray e lui la dipinse e ritrasse in numerose celebri e "scandalose" foto per l'epoca, come Le violon d’Ingres. Duchamp si indispettì non poco per quella che considerava una sconfitta quasi grave come agli scacchi e ritenne di doversi vendicare del locale svitando col nettapipe le viti che reggevano un tire-buchon a manovella fissato alla parete di legno nei pressi del bancone. Come biasimarlo, si trattava in effetti di un manufatto a cremagliera di notevole fattura, impreziosito dalle casuali sbecchettature che la vernice nera mostrava per l’uso. L’oggetto, come vedremo in seguito, andò ad arricchire una particolare serie di ready-made. Nei venti anni successivi, sempre vissuti a Montparnasse, Man Ray divenne uno dei maggiori esponenti del Dadaismo e rivoluzionò l'arte fotografica. Grandi artisti dell'epoca come Gertrude Stein, James Joyce e lo stesso Duchamp, posarono per lui. Nel frattempo Kiki continuava a esibirsi al Jockey, dove ballava il can-can cantando canzoni scollacciate. Ubriaca o drogata si scordava le parole, allora risollevava l’interesse della platea saltando su un tavolo e mettendosi a gambe all’aria: Kiki non aveva mai indossato culottes e vi assicuro che era uno spettacolo di quelli che non si possono scordare. Man Ray ne era gelosissimo, finiva per picchiarla davanti a tutti, e Kiki rinforzava lo show tirandogli calci e ogni oggetto che le venisse a portata di mano, posacene ricolmi, bicchieri, piatti sporchi... Ne sono stato testimone parecchie volte, già collezionavo le opere di Man Ray e Duchamp e frequentavamo gli stessi locali (dove spesso era l’unico modo per ritrovarli). E’ questa mia conoscenza personale che mi permette ora di rivelare l’esistenza di opere diciamo pure segrete di Marcel. Il primo ready-made puro è "Bottle Rack" ("Lo scolabottiglie"), e questa è cosa arcinota. Comprato per pochi franchi nel bazar dell’Hôtel de Ville a Parigi, venne semplicemente firmato da Duchamp. Nel 1915, mentre lui era negli Stati Uniti, sua sorella decise una "pulizia generale" dello studio dell’artista, stanca di tutto quel ciarpame, così l’originale dello Scolabottiglie fu banalmente gettato nella poubelle. Duchamp al suo ritorno non solo non si irritò con la sorella, ma vide in quel gesto una conferma delle sue teorizzazioni: arte è ciò che l’artista elegge a essere tale, e lo scolabottiglie nella sua prima vita non era altro che un prodotto industriale, quindi lo sostituì poi con altro esemplare identico rifirmandolo. Quella che è nota solo a me (e all’artista ovviamente, che però nel contempo purtroppo ci ha lasciati con l’epitaffio “D’altronde sono sempre gli altri a morire!”) è l’esistenza di un ciclo di ready made in quattro opere ispirate dal magico mondo del vino:
The bottle-washer, sottotitolato “Water Flows in the Veins of Art”, capolavoro di cinetismo idraulico, manovellismi e leveraggi, una scultura che dice “Non c’è sangue nelle vene dell’arte!”;
The corking machine, questo il titolo che Duchamp attribui a quest’opera dopo averla portata a New York, l’originale era Bouche-Bouteilles (ma affettuosamente la chiamava Boucheuse). Duchamp, affascinato dalla monumentalità dell’attrezzo, convinse un vecchio vigneron bordolese a cedergliela per un chilo di foie-gras trouffée del Périgord, specialità che il villico evoluto mostrava di apprezzare voluttuosamente. Investimento ben ponderato, visti i valori di mercato che i ready made avrebbero assunto da lì a un po’. Se lo scolabottiglie dice “L’arte è ferraglia”, l’urinoir, insomma il pisciatoio capovolto, dice “L’arte è un imbroglio”, il turabottiglie di Duchamp afferma irrevocabilmente “L’art est buchonnée!”; completava il ciclo The bottle-opener (corkscrew, scrisse qualche spiccio e moderno cronista all’epoca) che liberava l’arte dal maleficio del gusto di tappo, che le precludeva ogni respiro più ampio.
Si tratta di quattro opere magistrali in cui il genio alchemico di Duchamp, grazie al gesto rapinoso di un pensiero capace di trasformare il nihil in opus, raggiunge la sommità della sua produzione artistica e dell’elaborazione concettuale.
Il bottle-opener andò smarrito in uno dei trasferimenti transoceanici dell’artista (un cameriere di cabina l’aveva imprudentemente mostrato a un maître e...), Il Lavabottiglie tutt’ora appartiene alla mia collezione mentre sul turabottiglie e sui suoi trasformismi nominali (Corking Machine, Bouche-Bouteilles o Boucheuse) ho esercitato l’arbitrio di ripercorrere a ritroso il processo creativo del Maestro, tirandolo giù dal piedistallo imbalsamatorio dei musei. Insomma ho invertito il senso del gesto del mio stimato e compianto amico Marcel per riportare alla vita, quella vera, il ready made-turabottiglie. L’ho sbattezzato insomma, tirandolo giù in cantina dall’Olimpo dell’arte. Era un Duchamp, il Turabottiglie di Duchamp, e io mi sono preso il gusto di restituirlo alle sue funzione originarie consegnandolo al mio cantiniere che, inconsapevole di manovrare un capitale, ha parecchio apprezzato il macchinario che, mi dice, ha sensibilmente migliorato le sue prestazioni imbottigliatorie riducendogli la soglia di affaticamento, quantunque un metro di misurazione di quest'ultima non sia facilmente adottabile poiché il suo stato psicofisico è costantemente determinato dalla copiosa quantità della mia produzione vitivinicola che transita attraverso il suo gargarozzo.  
Oggi, ormai raggiunta l’età in cui anche gli edifici si sgretolano, io svaporerò nel nulla e di me resterà una collezione d’arte, sparsa tra le sale del mio Château, il cui principale capolavoro è appunto “Il lavabottiglie” di Marcel Duchamp. Ma la mia opera somma, quella che nessuno scoprirà mai, è Il Turabottiglie di Duchamp, la cui parabola sublime è passata attraverso un gesto del pensiero artistico del Maestro e poi al mio gesto che ha riportato l’”opera” alle sue funzioni primarie in affidamento al mio cantiniere nelle cui mani inconsapevoli e callose, se mi sopravviverà, rimarrà.
Epigonius van Dosiris
Accademico della Filanca, fiammingo per sorte, apolide per elezione, agnostico per devozione, giramondo e artista nell’arte di collezionare vacuità

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