sabato 23 febbraio 2013

Il samovar di Omsk




Era il 1990 o forse il '91, quando l'Unione Sovietica stava tirando ormai gli ultimi, e mi trovavo a Omsk, in Siberia, in pieno dicembre, con un freddo secco intorno ai trentacinque sotto zero. L'occasione era un convegno internazionale con il quale il teatro sovietico iniziava timidamente a confrontarsi con le forme di organizzazione teatrale europee e statunitensi. Solo il mondo del teatro riusciva a mettere in atto questo genere di trasferimenti, con quel tempo e in quell’epoca nessuno sarebbe mai andato da quelle parti con intenti turistici. Ufficialmente città segreta ai tempi della guerra fredda, Omsk era nota agli aerei razzo X15 americani per via delle sue istallazioni missilistiche con testate atomiche. All'inizio degli anni novanta contava un milione di abitanti. Ne avessimo visto uno su un milione in giro di notte! Sembrava una città raggelata da un maleficio. Spettrale e muta con i battelli prigionieri del ghiaccio sul fiume Om', noi albergati in una scuola dismessa un tempo utilizzata per quadri del partito comunista sovietico. Il teatro Drama era l'unico rifugio per lo spirito e per stomaci che non avessero larghe pretese. Dopo gli spettacoli ci accoglieva la cafeteria del teatro coi suoi frugali menu. Peraltro era perfettamente inutile uscire di notte in una città deserta, pareva che non ci fossero locali pubblici al di fuori dei teatri. Nel dopo spettacolo ci era di conforto l'ufficio del direttore il quale, beneficiando di buoni rapporti con la nomenclatura e traffici non sempre leciti, stipava in una specie di retrobottega una quantità di bevande e generi alimentari, anche capitalistici, da fare invidia a un basso napoletano di Forcella del dopoguerra, quando in pieno giorno gli scugnizzi svuotavano a mezzo i camion della Nato nel tragitto fra il porto e la base.
In quell'ufficio del direttore ho approfondito la mia conoscenza della vodka.
Girando per le strade della città siberiana, normalmente vuote anche di giorno, un pomeriggio entrai in una specie di grande emporio statale. La merce malamente esposta nelle vetrine non lasciava certamente capire di quale commercio si occupasse! Dentro a questo inconsueto spaccio c'erano grandi scaffali disadorni, al centro della sala due piccole scrivanie dietro le quali due impiegati annotavano a mano su grandi registri quello che le persone in coda andavano a depositare in conto vendita. La maggior parte recava con sé balalaike, strumenti a fiato e fisarmoniche finemente intarsiate di madreperla. Un intero repertorio di strumenti musicali, alcuni dei quali anche molto antichi e pregevoli, era esposto in quel luogo dalle luci fioche. Un popolo che si priva dei suoi strumenti musicali è costretto a rinunciare oltre all’armonia dei suoni anche a gran parte della propria storia. Non so perché, forse per una specie di pudore, non me la sono sentita di comprare uno di quegli strumenti. C'era anche dell'abbigliamento piuttosto povero con qualche colbacco dimesso, lo shapka come lo chiamano loro; c’erano attrezzi per cucina forse considerati superflui, quando a mia attenzione venne attratta da un samovar che doveva avere vissuto una lunga vita prima di arrivare lì, in quel provvisorio deposito. Cercai di figurarmi chi avesse rinunciato al rito del tè quotidiano. Questo strumento era ogni casa russa, urbana e contadina, nobile e proletaria. Prima dell'arrivo di una finta modernità elettrificata l'uso del samovar a carbonella per bollire l'acqua per il tè si era diffuso su tutto il territorio delle russie fin dalla fine del settecento. Quel samovar piuttosto ossidato, con una caldaia malamente incrostata di calcare, scovato in nell'emporio mi costò tre dollari e cinquanta che i due funzionari cambiarono con un pacchetto di un certo spessore di banconote in rubli così fruste da sembrare carta assorbente. Mi sentivo come se avessi compiuto un'azione di salvataggio della memoria. Il nostro soggiorno a Omsk terminò e all'aeroporto di Sheremetyevo al momento dell’imbarco un poliziotto addetto al controllo doganale si irrigidì parecchio vedendo il mio samovar. Con una mimica facciale raggelata affermò che si trattava di antikvarnoy e che avrebbe dovuto sequestrare il pregevole arnese. A meno che non gli fornissi solidi argomenti per chiudere un occhio sull'espatrio effettuando ipso facto una transazione in rubli a suo favore, meglio se in dollari; liberalità da compiersi con discrezione, se no avrebbe dovuto dividere coi colleghi. Il tipo era ruvido come la sua divisa e parco di parole ma si faceva intendere molto bene. A dargliela buona poteva anche sembrare il custode geloso della memoria di un tempo svenduta per pochi dollari. Forse romanzavo ma la richiesta di denaro da parte del militare assomigliava comunque più a un atto di riparazione verso la gloriosa storia del popolo russo che portava la mia mente in un labirinto di domande, prima fra tutte: “Cosa può provare un essere umano quando è costretto a privarsi di oggetti che accompagnano la sua ritualità quotidiana fin dalla nascita? Forse bisognerebbe chiederlo a coloro che hanno vissuto le privazioni della seconda guerra mondiale, a quelli che l'hanno combattuta in uniforme, a chi si è trovato costretto a lottare per la sopravvivenza quotidiana in città, nei paesi e nelle campagne, a coloro che l'hanno combattuta da civili per ridare dignità a un paese oltraggiato”. Per certi versi l’Italia aveva vissuto il passaggio dalla guerra al dopoguerra come un napoletano costretto dall'indigenza a portare al Monte di Pietà la sua macchinetta per il caffè e pure il macinino quando il caffè tornava a riprendere il suo posto nelle case degli italiani dopo tanti succedanei, nel migliore dei casi orzo e cicoria tostati, o come un parmigiano privato della sua grattugia per il formaggio; le magiche scatole in legno con un rullo dentato e una manovella tramandate per generazioni e sapientemente usate per trasformare le scaglie di Parmigiano in “segatura nobile” fondamentale per i cappelletti in brodo.
Così deve essere per la donna che viene da noi a fare le pulizie di casa, nata e vissuta in Ucraina. Per lei ci sono pochi capisaldi nella sua nuova vita in Italia: ai marocchini puzzano le ascelle, specialmente a quelli che prendono l'autobus d'estate, i moldavi sono furbi, ladri e imbroglioni, come gli zingari, sopratutto il mio samovar è brutto, anche se io l'ho tutto lucidato! E' nichelato e funziona ancora a carbone, adesso nella sua patria d’origine li fanno belli cromati e elettrici. La prima volta che la donna di servizio ucraina è arrivata in casa nostra ha osservato da lontano con diffidenza il vecchio arnese per scaldare l’acqua poi, appena ha potuto, l'ha scrutato da vicino e ha visto il timbro inciso in cirillico che recita “Samovara Lenina Fabrika”, come a certificare che si trattava proprio di uno spregevole rottame proveniente dal defunto impero bolscevico.

martedì 5 febbraio 2013

La Berkel di Piletti



Prima arrivava il rombo della doppia marmitta, poi appariva il celeste dell'Abarth 750 Sport. Dalla portiera controvento Piletti scendeva per aprire bottega, sempre puntuale. Magro, berretto all’inglese, naso alla Coppi, per tutti era Piletti il bottegaio e basta, non ho mai sentito nessuno chiamarlo per nome, neanche sua moglie. Noi bambini passavamo di lì per andare a scuola e ci lustravamo gli occhi nel contrasto fra quel celeste così infantile e gli interni rossi, da vera vettura sportiva. Piletti ci teneva alla sua macchina, non l'ho mai vista sporca, nemmeno nelle giornate di maltempo, così come teneva alla sua bottega. Entrarci era come inoltrarsi nel regno dei profumi e dei colori. A destra un'intera parete di cassetti con oblò in vetro mostrava ogni formato di pasta in vendita sfusa, uno ne poteva comprare anche un etto. Farine e zucchero stavano nel retrobottega, in grandi sacchi da cinquanta chili. Lo zucchero lo incartava in fogli di carta blu, mai più rivista (color “carta da zucchero”, si diceva), la farina in carta bianca. La carta oleata gli serviva per gli affettati e il formaggio, cioè il Parmigiano che si meritava un incarto finale nella gialla carta di mais. Altre sottospecie di formaggi lui non li teneva, il Belpaese e il formaggino Mio li vendeva la lattaia a fianco, con la cotognata, rotolini e scarafaggi di liquirizia, mentine colorate e il latte della Centrale, nelle bottiglie di vetro.
I sacchetti di carta color nocciola servivano solo per il pane, appena si arrivava a casa venivano “stirati”, piegati ed erano buoni per un altro servizio. Farine, zucchero, le cose in polvere ma anche il caffè in grani Piletti aveva un suo metodo per incartarli senza che si disperdessero nella borsa della spesa: disponeva la carta sul piatto della bilancia, al centro ci versava il prodotto con una paletta in alluminio poi ripiegava il foglio fino a farne combaciare i lembi e dagli angoli cominciava a seguirne i bordi creando con i medi delle piccole pieghe a triangolo che via via premeva fra i pollici e gli indici, concatenando i triangolini fino a risalire in cima a creare una curva per poi rinserrare bene al centro l'ultima apertura, come una borsetta. In realtà ci ho messo più tempo io a descriverlo di quanto ci mettesse lui a farlo. Poi è facile, l'avevo imparato anch'io. E' una tecnica che sorprendentemente ho riscoperto in Argentina dove con quel metodo ci sigillano la pasta delle empanadas. In uno sgabuzzino separato stavano i sacchetti di lisciva e perborato, poi di lì a poco, ambasciatori del progresso, sarebbero arrivati il Tide e Persil “Vale un tesoro” ma soprattutto “Ava, come lava! Con perborato stabilizzato”, che nessuno capiva cosa volesse dire ma se lo diceva Calimero c'era da crederci. Col progresso arrivarono i punti, le figurine della Mira Lanza, i giocattolini che profumavano di Tide e una cascata di gettoni d'oro del Persil, che ne avessi visto uno... Spezie, cacao, caffè in grani (allora ognuno se lo macinava in casa) erano in mostra in grandi vasi di vetro su un ripiano in parete, dietro il bancone. Anche il pane trovava posto dietro il bancone, in cassoni aperti da dove spandeva la sua fragranza. Il bancone, ecco, quello era un capolavoro monumentale che a noi bambini incuteva soggezione: alto, in legno scuro, con montanti in rilievo e capitelli che portavano uno spesso piano in marmo sul quale Piletti faceva troneggiare due enormi affettatrici affiancate da due bilance con tante di quelle scale di numeri da sembrare due stele geroglifiche. Gli apparecchi erano tutti e quattro rossi, di un inconfondibile rosso Berkel, ed erano sovrastati da una barra d'acciaio cromato con dei ganci dai quali pendevano i prosciutti di Langhirano, vero attestato di opulenza della bottega. Noi bambini non si arrivava al piano di marmo, così eravamo costretti a guardare in alto, verso le macchine affettatrici che erano ancora più in alto sul piano, e Piletti solo le sovrastava perché lui stava su una pedana rialzata dalla quale dirigeva il traffico delle massaie. Noi bambini eravamo una minoranza a fare la spesa. Io restavo lì incantato a godermi lo spettacolo del prosciutto che volteggiava fra le mani del bottegaio fino a rimanere imprigionato fra i denti del carrello di un'affettatrice, mentre la lama dell'altra era già pronta ad attaccare una mortadella e pancetta, salame e coppa erano lì a fianco che aspettavano la loro estrazione a sorte. La spesa si faceva pensando al borsellino ma quasi nessuno pagava in contanti, tutti portavano con loro “il libretto”, un quadernetto in carta riciclata fornito a ogni famiglia dal bottegaio sul quale lui stesso annotava ogni spesa giornaliera. Allora gli stipendi arrivavano il 27 di ogni mese, in quella data ciascuno andava a chiudere la mesata. Regolati i conti, Piletti barrava la colonna di cifre con un tratto di penna in diagonale e apriva il nuovo mese. La biro tornava poi a infilarla sull'orecchio destro, appena sotto la bustina in tela bianca, in bottega il suo berretto d’ordinanza, che pubblicizzava un qualche salumificio di Langhirano.
A dieci anni decisi che sarebbe stata mia una di quelle affettatrici, lustre di smalto con scritte e fregi dorati, rostri nichelati e cromature a specchio, volano e poi manette e manovelle che sgranavano il tempo fra una fetta e l'altra mentre il grande disco con un sibilo affilato sfogliava i salumi come pagine dell'enciclopedia universale dei profumi e dei sapori della mia infanzia. Da “grande” ho sempre rincorso l’atmosfera di quella bottega e quei profumi seguendone le tracce in un labirinto che un giorno mi ha fatto capitare proprio dove una delle due Berkel di Piletti era stata abbandonata in un sottoscala, pietosamente coperta con la juta di un vecchio sacco da farina.


mercoledì 9 gennaio 2013

Ammazza la vecchia col Flit!


Ecco io non ce l’ho mica contro le mosche solo che proprio non le posso sopportare che in estate entrano dappertutto ma sono troppe e a cosa servono io le detesto come dice il mio babbo che neanche lui le può soffrire ma dice che con tutte quelle mosche intorno si sente come una merda di vacca! Lo so che i bambini non devono dire le parolacce ma pensare le possono pensare che i pensieri non son mica trasparenti e uno ci può vedere dentro e dire tu hai pensato una parolaccia che schifo! io le penso e le scrivo, così mi ricordo come si fa e ci ho tutto un elenco di parolacce scritte che qualcuna le ho sentite dai miei compagni come culo pistolino e passerina ma le più forti le raccolgo al mercato che ci vado con la mia bisnonna a fare la spesa e le ho divise in due colonne: quelle dei fruttaroli che sono molto fiorite perché loro ci sono abituati alla natura e quelle dei pollai che sono quei signori che vendono i polli morti che quelli vivi non è facile convincerli a farsi tagliare a tocchi ma le sue signore dei pollai quelle parole non le dicono che non sta bene e non fumano neanche ma le loro sigarette se le fumano tutte i suoi mariti che sarà per via del fumo che gli viene una bella fantasia a inventarsi le parolacce. Qualche volta si sentono anche delle belle madonne tipo quando a uno ci fanno cascare una cassetta di patate sui duroni che non son mica le ciliegie di quelle più buone che a mangiarne un chilo si può anche morire ma sono i suoi calli di quel tipo lì che lo fanno bestemmiare se ce li pestano. Ma però le madonne io non me le scrivo che non ha senso parlare male degli animali che ci hanno anche loro i suoi pensieri e magari ci hanno anche i calli che ci fanno male e sicuro se anche sapessero parlare mica griderebbero diouomo o donnamadonna! ma il più bestiale di tutti è il tripparo del mercato che come dice la mia bisnonna le spara proprio grasse che lui nella cacca ci lavora tutto il santogiorno ma le signore anche quelle col collo di pelliccia che la mia bisnonna dice che è tutto coniglio ma comunque le signore quelle con le sporte a rete e quelle ricche con le borse di pelle si fermano davanti al suo banco a ridere con una mano davanti alla bocca che qualcheduna non so perché finisce che piange e dice oddìo mammamìa mi scappa quasi perché il tripparo ci piace di avere un suo pubblico femminile e si gasa per quello anche se forse non si scrive così.
Alla fine mi sono perso dietro alle parole che è come lasciare aperta la finestra alla fantasia ma non come a scuola che il maestro ti controlla tutto e ti dice cosa stai pensando che non segui la lezione.
Ma mi sono ritrovato. Le mosche!
Mosche in cucina sulla tovaglia incerata e sulle sedie, un tappeto di mosche morte sparse come le figurine sul pavimento quando gioco a puntinissima ma qui sono punti neri da schivare saltellando a zoppagallina prima su un piede poi su l’altro che non mi da fastidio il croc delle mosche quando le schiacci ma perché si spatassano sotto le suole che quello è uno schifo davvero!
Adesso vi dico com’è che io gli sparo il Flit in aria che sembra nebbia e gli canto quel motivetto dell'aradio che fa ammazza la mosca col flit! ma qualche spiritosone dei miei amici dicono ammazza la vecchia col flit! che poi bisogna rispondergli e se non muore col gas! che questa risposta è uguale anche per le mosche ma quelle non fanno il coro e stecchite in volo cadono a piombo con un piccolo rumore quando toccano il pavimento che noi bambini lo sentiamo ma abbiamo le orecchie buone mica come quelle della mia bisnonna e le mosche sembra che non si accorgono nemmeno che finisce il loro tempo di volare. Qualcheduna atterra sulle zampe e fa qualche tentativo di tornare a volare ma poi decide che è meglio camminare ma poco e si arrende e si appoggia su un fianco ma finisce che tira le ultime zampettate all'aria.
La mia mamma dice che il Flit è un veleno ma bisognerebbe usarlo anche con attenzione che non si sa mica bene che cosa vuole dire ma siccome che le mosche muoiono tutte ma anche le zanzare vuol dire che quella nebbiolina puzzolente è di quelle che fanno male al nemico che nel nostro caso son le mosche ma anche le zanzare che poi sono anche peggio delle mosche che un conto è pizzicare altro è pungere. Il droghiere il Flit lo chiama DDT ma lo vende a bottiglioni che tanto a nessuno ci viene in mente di berlo che allora sì che muoiono anche gli uomini. Il droghiere vende tutto nei bottiglioni che dice che sono la sua unità di misura: la lisciva no che quella è in polvere ma varecchina per i bucati innevati sì e glicerina per i geloni invernali acido muriatico per sturare lavandini ma il Flit è la sua specialità che infatti il bottegaio non la vende mica. Lui dice che non fa mica male agli uomini che se facesse male non lo venderebbe. Come il ferramenta che vende chiodi bulloni e amianto, un materiale così speciale che se ci fai un paio di mutande allora ti puoi sedere anche sulla cucina economica accesa che non ti bruci neanche le chiappe ma comunque io non capisco perché mai a uno ci debba venite la voglia di mettersi a sedere proprio sulla cucina economica che al nonno ci serve da arrostire la polenta.
FINE DELLA STORIA scritta e pensata da me


NOTE DEL LETTORE PIÙ VECCHIO
Ammazza la mosca col flit è un tormentone divenuto popolare in Italia nel primo dopoguerra grazie alla pubblicità radiofonica del Flit, ovvero il DDT, insetticida d’uso comune nella case degli italiani che lo nebulizzavano con uno spruzzatore a stantuffo chiamato anch’esso per estensione Flit. Il cabaret se ne appropriò trasformandolo in un botta e risposta goliardico con cui spesso si chiudevano le gag:
Ammazza la vecchia col Flit!
E se non muore,... col gas!
La notorietà fu favorita dall’orecchiabilità di un motivetto in stile “comica finale”, due battute con sette note, da tempo molto famoso negli Stati Uniti, Shave and a Haircut, Two Bits
dove "Two bits” è un arcaismo che negli USA richiama i 25 cent, “a quarter dollar”. Come dire: “Barba e capelli, due soldi”.
La prima apparizione di questo motivo fu in un brano di Charles Hale del 1899, “At a Darktown Cakeworld”, ma l’accattivante simpatia “virale” della piccola melodia la fece entrar nel repertorio di molti musicisti come apertura e ancor di più come sigillo ironico trasversale dal jazz, rag, bluegrass fino al rock, riconoscibile in composizioni di Bill Murray, Dave Brubeck, Bo Diddley,...
Poi “Shave and a haircut” entrò nella sigla dei cartoon Looney Tunes della Warner Bros (Bugs Bunny, Duffy Duck, Titti,...) così il motivo dilagò per il mondo fino a diventare il suono irridente delle trombe di tante automobili e perfino un modo spiritoso di bussare alla porta.
Chi ha incastrato Roger Rabbit” lo riprese e lo rilanciò alle nuove generazioni alla fine degli anni ottanta.
Flit in inglese è “svolazzare” ma era anche l'abbreviazione di fly-tox (veleno per mosche), col tempo diventato un comune riferimento al primo e più diffuso degli insetticidi moderni, il DDT, acronimo di Dicloro-Difenil-Tricloroetano.
Il DDT fu utilizzato in modo intensivo su scala mondiale per debellare la zanzara anofele, portatrice della malaria, ma anche le pulci portatrici del tifo. Negli anni cinquanta Food and Drug Administration avanzò i primi dubbi sui rischi di cancerogenicità del prodotto per l'uomo. All'inizio degli anni settanta il DDT venne proibito negli Stati Uniti, alla fine della decade lo fu anche in Italia. È stato provato che il DDT è un inquinante organico persistente altamente resistente nell'ambiente ma anche negli animali e negli esseri umani attraverso la catena alimentare.
Amianto. Per lui parlano i morti, quelli che son già morti e quelli che moriranno nei prossimi decenni.