Era
il 1990 o forse il '91, quando l'Unione Sovietica stava tirando ormai
gli ultimi, e mi trovavo a Omsk, in Siberia, in pieno dicembre, con
un freddo secco intorno ai trentacinque sotto zero. L'occasione era
un convegno internazionale con il quale il teatro sovietico iniziava
timidamente a confrontarsi con le forme di organizzazione teatrale
europee e statunitensi. Solo il mondo del teatro riusciva a mettere
in atto questo genere di trasferimenti, con quel tempo e in
quell’epoca nessuno sarebbe mai andato da quelle parti con intenti
turistici. Ufficialmente città segreta ai tempi della guerra fredda,
Omsk era nota agli aerei razzo X15 americani per via delle sue
istallazioni missilistiche con testate atomiche. All'inizio degli
anni novanta contava un milione di abitanti. Ne avessimo visto uno su
un milione in giro di notte! Sembrava una città raggelata da un
maleficio. Spettrale e muta con i battelli prigionieri del ghiaccio
sul fiume Om', noi albergati in una scuola dismessa un tempo
utilizzata per quadri del partito comunista sovietico. Il teatro
Drama era l'unico rifugio per lo spirito e per stomaci che non
avessero larghe pretese. Dopo gli spettacoli ci accoglieva la
cafeteria del teatro coi suoi frugali menu. Peraltro era
perfettamente inutile uscire di notte in una città deserta, pareva
che non ci fossero locali pubblici al di fuori dei teatri. Nel dopo
spettacolo ci era di conforto l'ufficio del direttore il quale,
beneficiando di buoni rapporti con la nomenclatura e traffici non
sempre leciti, stipava in una specie di retrobottega una quantità di
bevande e generi alimentari, anche capitalistici, da fare invidia a
un basso napoletano di Forcella del dopoguerra, quando in pieno
giorno gli scugnizzi svuotavano a mezzo i camion della Nato nel
tragitto fra il porto e la base.
In
quell'ufficio del direttore ho approfondito la mia conoscenza della
vodka.
Girando
per le strade della città siberiana, normalmente vuote anche di
giorno, un pomeriggio entrai in una specie di grande emporio statale.
La merce malamente esposta nelle vetrine non lasciava certamente
capire di quale commercio si occupasse! Dentro a questo inconsueto
spaccio c'erano grandi scaffali disadorni, al centro della sala due
piccole scrivanie dietro le quali due impiegati annotavano a mano su
grandi registri quello che le persone in coda andavano a depositare
in conto vendita. La maggior parte recava con sé balalaike,
strumenti a fiato e fisarmoniche finemente intarsiate di madreperla.
Un intero repertorio di strumenti musicali, alcuni dei quali anche
molto antichi e pregevoli, era esposto in quel luogo dalle luci
fioche. Un popolo che si priva dei suoi strumenti musicali è
costretto a rinunciare oltre all’armonia dei suoni anche a gran
parte della propria storia. Non so perché, forse per una specie di
pudore, non me la sono sentita di comprare uno di quegli strumenti.
C'era anche dell'abbigliamento piuttosto povero con qualche colbacco
dimesso, lo shapka
come lo chiamano loro; c’erano attrezzi per cucina forse
considerati superflui, quando a mia attenzione venne attratta da un
samovar che doveva avere vissuto una lunga vita prima di arrivare lì,
in quel provvisorio deposito. Cercai di figurarmi chi avesse
rinunciato al rito del tè quotidiano. Questo strumento era ogni casa
russa, urbana e contadina, nobile e proletaria. Prima dell'arrivo di
una finta modernità elettrificata l'uso del samovar a carbonella per
bollire l'acqua per il tè si era diffuso su tutto il territorio
delle russie fin dalla fine del settecento. Quel samovar piuttosto
ossidato, con una caldaia malamente incrostata di calcare, scovato in
nell'emporio mi costò tre dollari e cinquanta che i due funzionari
cambiarono con un pacchetto di un certo spessore di banconote in
rubli così fruste da sembrare carta assorbente. Mi sentivo come se
avessi compiuto un'azione di salvataggio della memoria. Il nostro
soggiorno a Omsk terminò e all'aeroporto di Sheremetyevo al momento
dell’imbarco un poliziotto addetto al controllo doganale si
irrigidì parecchio vedendo il mio samovar. Con una mimica facciale
raggelata affermò che si trattava di antikvarnoy
e che avrebbe dovuto sequestrare il pregevole arnese. A meno che non
gli fornissi solidi argomenti per chiudere un occhio sull'espatrio
effettuando ipso
facto
una transazione in rubli a suo favore, meglio se in dollari;
liberalità da compiersi con discrezione, se no avrebbe dovuto
dividere coi colleghi. Il tipo era ruvido come la sua divisa e parco
di parole ma si faceva intendere molto bene. A dargliela buona poteva
anche sembrare il custode geloso della memoria di un tempo svenduta
per pochi dollari. Forse romanzavo ma la richiesta di denaro da parte
del militare assomigliava comunque più a un atto di riparazione
verso la gloriosa storia del popolo russo che portava la mia mente in
un labirinto di domande, prima fra tutte: “Cosa può provare un
essere umano quando è costretto a privarsi di oggetti che
accompagnano la sua ritualità quotidiana fin dalla nascita? Forse
bisognerebbe chiederlo a coloro che hanno vissuto le privazioni della
seconda guerra mondiale, a quelli che l'hanno combattuta in uniforme,
a chi si è trovato costretto a lottare per la sopravvivenza
quotidiana in città, nei paesi e nelle campagne, a coloro che
l'hanno combattuta da civili per ridare dignità a un paese
oltraggiato”. Per certi versi l’Italia aveva vissuto il
passaggio dalla guerra al dopoguerra come un napoletano costretto
dall'indigenza a portare al Monte di Pietà la sua macchinetta per il
caffè e pure il macinino quando il caffè tornava a riprendere il
suo posto nelle case degli italiani dopo tanti succedanei, nel
migliore dei casi orzo e cicoria tostati, o come un parmigiano
privato della sua grattugia per il formaggio; le magiche scatole in
legno con un rullo dentato e una manovella tramandate per generazioni
e sapientemente usate per trasformare le scaglie di Parmigiano in
“segatura nobile” fondamentale per i cappelletti in brodo.
Così
deve essere per la donna che viene da noi a fare le pulizie di casa,
nata e vissuta in Ucraina. Per lei ci sono pochi capisaldi nella sua
nuova vita in Italia: ai marocchini puzzano le ascelle, specialmente
a quelli che prendono l'autobus d'estate, i moldavi sono furbi, ladri
e imbroglioni, come gli zingari, sopratutto il mio samovar è brutto,
anche se io l'ho tutto lucidato! E' nichelato e funziona ancora a
carbone, adesso nella sua patria d’origine li fanno belli cromati e
elettrici. La prima volta che la donna di servizio ucraina è
arrivata in casa nostra ha osservato da lontano con diffidenza il
vecchio arnese per scaldare l’acqua poi, appena ha potuto, l'ha
scrutato da vicino e ha visto il timbro inciso in cirillico che
recita “Samovara Lenina Fabrika”, come a certificare che si
trattava proprio di uno spregevole rottame proveniente dal defunto
impero bolscevico.