martedì 5 febbraio 2013

La Berkel di Piletti



Prima arrivava il rombo della doppia marmitta, poi appariva il celeste dell'Abarth 750 Sport. Dalla portiera controvento Piletti scendeva per aprire bottega, sempre puntuale. Magro, berretto all’inglese, naso alla Coppi, per tutti era Piletti il bottegaio e basta, non ho mai sentito nessuno chiamarlo per nome, neanche sua moglie. Noi bambini passavamo di lì per andare a scuola e ci lustravamo gli occhi nel contrasto fra quel celeste così infantile e gli interni rossi, da vera vettura sportiva. Piletti ci teneva alla sua macchina, non l'ho mai vista sporca, nemmeno nelle giornate di maltempo, così come teneva alla sua bottega. Entrarci era come inoltrarsi nel regno dei profumi e dei colori. A destra un'intera parete di cassetti con oblò in vetro mostrava ogni formato di pasta in vendita sfusa, uno ne poteva comprare anche un etto. Farine e zucchero stavano nel retrobottega, in grandi sacchi da cinquanta chili. Lo zucchero lo incartava in fogli di carta blu, mai più rivista (color “carta da zucchero”, si diceva), la farina in carta bianca. La carta oleata gli serviva per gli affettati e il formaggio, cioè il Parmigiano che si meritava un incarto finale nella gialla carta di mais. Altre sottospecie di formaggi lui non li teneva, il Belpaese e il formaggino Mio li vendeva la lattaia a fianco, con la cotognata, rotolini e scarafaggi di liquirizia, mentine colorate e il latte della Centrale, nelle bottiglie di vetro.
I sacchetti di carta color nocciola servivano solo per il pane, appena si arrivava a casa venivano “stirati”, piegati ed erano buoni per un altro servizio. Farine, zucchero, le cose in polvere ma anche il caffè in grani Piletti aveva un suo metodo per incartarli senza che si disperdessero nella borsa della spesa: disponeva la carta sul piatto della bilancia, al centro ci versava il prodotto con una paletta in alluminio poi ripiegava il foglio fino a farne combaciare i lembi e dagli angoli cominciava a seguirne i bordi creando con i medi delle piccole pieghe a triangolo che via via premeva fra i pollici e gli indici, concatenando i triangolini fino a risalire in cima a creare una curva per poi rinserrare bene al centro l'ultima apertura, come una borsetta. In realtà ci ho messo più tempo io a descriverlo di quanto ci mettesse lui a farlo. Poi è facile, l'avevo imparato anch'io. E' una tecnica che sorprendentemente ho riscoperto in Argentina dove con quel metodo ci sigillano la pasta delle empanadas. In uno sgabuzzino separato stavano i sacchetti di lisciva e perborato, poi di lì a poco, ambasciatori del progresso, sarebbero arrivati il Tide e Persil “Vale un tesoro” ma soprattutto “Ava, come lava! Con perborato stabilizzato”, che nessuno capiva cosa volesse dire ma se lo diceva Calimero c'era da crederci. Col progresso arrivarono i punti, le figurine della Mira Lanza, i giocattolini che profumavano di Tide e una cascata di gettoni d'oro del Persil, che ne avessi visto uno... Spezie, cacao, caffè in grani (allora ognuno se lo macinava in casa) erano in mostra in grandi vasi di vetro su un ripiano in parete, dietro il bancone. Anche il pane trovava posto dietro il bancone, in cassoni aperti da dove spandeva la sua fragranza. Il bancone, ecco, quello era un capolavoro monumentale che a noi bambini incuteva soggezione: alto, in legno scuro, con montanti in rilievo e capitelli che portavano uno spesso piano in marmo sul quale Piletti faceva troneggiare due enormi affettatrici affiancate da due bilance con tante di quelle scale di numeri da sembrare due stele geroglifiche. Gli apparecchi erano tutti e quattro rossi, di un inconfondibile rosso Berkel, ed erano sovrastati da una barra d'acciaio cromato con dei ganci dai quali pendevano i prosciutti di Langhirano, vero attestato di opulenza della bottega. Noi bambini non si arrivava al piano di marmo, così eravamo costretti a guardare in alto, verso le macchine affettatrici che erano ancora più in alto sul piano, e Piletti solo le sovrastava perché lui stava su una pedana rialzata dalla quale dirigeva il traffico delle massaie. Noi bambini eravamo una minoranza a fare la spesa. Io restavo lì incantato a godermi lo spettacolo del prosciutto che volteggiava fra le mani del bottegaio fino a rimanere imprigionato fra i denti del carrello di un'affettatrice, mentre la lama dell'altra era già pronta ad attaccare una mortadella e pancetta, salame e coppa erano lì a fianco che aspettavano la loro estrazione a sorte. La spesa si faceva pensando al borsellino ma quasi nessuno pagava in contanti, tutti portavano con loro “il libretto”, un quadernetto in carta riciclata fornito a ogni famiglia dal bottegaio sul quale lui stesso annotava ogni spesa giornaliera. Allora gli stipendi arrivavano il 27 di ogni mese, in quella data ciascuno andava a chiudere la mesata. Regolati i conti, Piletti barrava la colonna di cifre con un tratto di penna in diagonale e apriva il nuovo mese. La biro tornava poi a infilarla sull'orecchio destro, appena sotto la bustina in tela bianca, in bottega il suo berretto d’ordinanza, che pubblicizzava un qualche salumificio di Langhirano.
A dieci anni decisi che sarebbe stata mia una di quelle affettatrici, lustre di smalto con scritte e fregi dorati, rostri nichelati e cromature a specchio, volano e poi manette e manovelle che sgranavano il tempo fra una fetta e l'altra mentre il grande disco con un sibilo affilato sfogliava i salumi come pagine dell'enciclopedia universale dei profumi e dei sapori della mia infanzia. Da “grande” ho sempre rincorso l’atmosfera di quella bottega e quei profumi seguendone le tracce in un labirinto che un giorno mi ha fatto capitare proprio dove una delle due Berkel di Piletti era stata abbandonata in un sottoscala, pietosamente coperta con la juta di un vecchio sacco da farina.


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