Prima
arrivava il rombo della doppia marmitta, poi appariva il celeste
dell'Abarth 750 Sport. Dalla portiera controvento Piletti scendeva
per aprire bottega, sempre puntuale. Magro, berretto all’inglese,
naso alla Coppi, per tutti era Piletti il bottegaio e basta, non ho
mai sentito nessuno chiamarlo per nome, neanche sua moglie. Noi
bambini passavamo di lì per andare a scuola e ci lustravamo gli
occhi nel contrasto fra quel celeste così infantile e gli interni
rossi, da vera vettura sportiva. Piletti ci teneva alla sua macchina,
non l'ho mai vista sporca, nemmeno nelle giornate di maltempo, così
come teneva alla sua bottega. Entrarci era come inoltrarsi nel regno
dei profumi e dei colori. A destra un'intera parete di cassetti con
oblò in vetro mostrava ogni formato di pasta in vendita sfusa, uno
ne poteva comprare anche un etto. Farine e zucchero stavano nel
retrobottega, in grandi sacchi da cinquanta chili. Lo zucchero lo
incartava in fogli di carta blu, mai più rivista (color “carta da
zucchero”, si diceva), la farina in carta bianca. La carta oleata
gli serviva per gli affettati e il formaggio, cioè il Parmigiano che
si meritava un incarto finale nella gialla carta di mais. Altre
sottospecie di formaggi lui non li teneva, il Belpaese e il
formaggino Mio li vendeva la lattaia a fianco, con la cotognata,
rotolini e scarafaggi di liquirizia, mentine colorate e il latte
della Centrale, nelle bottiglie di vetro.
I
sacchetti di carta color nocciola servivano solo per il pane, appena
si arrivava a casa venivano “stirati”, piegati ed erano buoni per
un altro servizio. Farine, zucchero, le cose in polvere ma anche il
caffè in grani Piletti aveva un suo metodo per incartarli senza che
si disperdessero nella borsa della spesa: disponeva la carta sul
piatto della bilancia, al centro ci versava il prodotto con una
paletta in alluminio poi ripiegava il foglio fino a farne combaciare
i lembi e dagli angoli cominciava a seguirne i bordi creando con i
medi delle piccole pieghe a triangolo che via via premeva fra i
pollici e gli indici, concatenando i triangolini fino a risalire in
cima a creare una curva per poi rinserrare bene al centro l'ultima
apertura, come una borsetta. In realtà ci ho messo più tempo io a
descriverlo di quanto ci mettesse lui a farlo. Poi è facile, l'avevo
imparato anch'io. E' una tecnica che sorprendentemente ho riscoperto
in Argentina dove con quel metodo ci sigillano la pasta delle
empanadas. In uno sgabuzzino separato stavano i sacchetti di lisciva
e perborato, poi di lì a poco, ambasciatori del progresso, sarebbero
arrivati il Tide e Persil “Vale un tesoro” ma soprattutto “Ava,
come lava! Con perborato stabilizzato”, che nessuno capiva cosa
volesse dire ma se lo diceva Calimero c'era da crederci. Col
progresso arrivarono i punti, le figurine della Mira Lanza, i
giocattolini che profumavano di Tide e una cascata di gettoni d'oro
del Persil, che ne avessi visto uno... Spezie, cacao, caffè in grani
(allora ognuno se lo macinava in casa) erano in mostra in grandi vasi
di vetro su un ripiano in parete, dietro il bancone. Anche il pane
trovava posto dietro il bancone, in cassoni aperti da dove spandeva
la sua fragranza. Il bancone, ecco, quello era un capolavoro
monumentale che a noi bambini incuteva soggezione: alto, in legno
scuro, con montanti in rilievo e capitelli che portavano uno spesso
piano in marmo sul quale Piletti faceva troneggiare due enormi
affettatrici affiancate da due bilance con tante di quelle scale di
numeri da sembrare due stele geroglifiche. Gli apparecchi erano tutti
e quattro rossi, di un inconfondibile rosso Berkel, ed erano
sovrastati da una barra d'acciaio cromato con dei ganci dai quali
pendevano i prosciutti di Langhirano, vero attestato di opulenza
della bottega. Noi bambini non si arrivava al piano di marmo, così
eravamo costretti a guardare in alto, verso le macchine affettatrici
che erano ancora più in alto sul piano, e Piletti solo le sovrastava
perché lui stava su una pedana rialzata dalla quale dirigeva il
traffico delle massaie. Noi bambini eravamo una minoranza a fare la
spesa. Io restavo lì incantato a godermi lo spettacolo del
prosciutto che volteggiava fra le mani del bottegaio fino a rimanere
imprigionato fra i denti del carrello di un'affettatrice, mentre la
lama dell'altra era già pronta ad attaccare una mortadella e
pancetta, salame e coppa erano lì a fianco che aspettavano la loro
estrazione a sorte. La spesa si faceva pensando al borsellino ma
quasi nessuno pagava in contanti, tutti portavano con loro “il
libretto”, un quadernetto in carta riciclata fornito a ogni
famiglia dal bottegaio sul quale lui stesso annotava ogni spesa
giornaliera. Allora gli stipendi arrivavano il 27 di ogni mese, in
quella data ciascuno andava a chiudere la mesata. Regolati i conti,
Piletti barrava la colonna di cifre con un tratto di penna in
diagonale e apriva il nuovo mese. La biro tornava poi a infilarla
sull'orecchio destro, appena sotto la bustina in tela bianca, in
bottega il suo berretto d’ordinanza, che pubblicizzava un qualche
salumificio di Langhirano.
A
dieci anni decisi che sarebbe stata mia una di quelle affettatrici,
lustre di smalto con scritte e fregi dorati, rostri nichelati e
cromature a specchio, volano e poi manette e manovelle che sgranavano
il tempo fra una fetta e l'altra mentre il grande disco con un sibilo
affilato sfogliava i salumi come pagine dell'enciclopedia universale
dei profumi e dei sapori della mia infanzia. Da “grande” ho
sempre rincorso l’atmosfera di quella bottega e quei profumi
seguendone le tracce in un labirinto che un giorno mi ha fatto
capitare proprio dove una delle due Berkel di Piletti era stata
abbandonata in un sottoscala, pietosamente coperta con la juta di un
vecchio sacco da farina.
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