sabato 25 giugno 2011

Camera d'Aria (lo specchio delle nuvole)

La stanza si espande e si contrae come un polmone, le lampade s'avvicinano come fari d'automobile poi sono inarrivabili galassie, come in un cannocchiale all'incontrario. Il pavimento in piastrelle bianche e nere è Vasarely che spancia verso il basso, come una tela elastica. Camminarci mima l'incertezza del percorso umano, ogni passo si inabissa verso il centro, poi il piano si rapprende come ragnatela e mi lascia sospeso nel nulla. I pensieri sono parole scardinate in passati remoti che ritornano a inscenare girotondi dove io ruoto mutando velocità e tocco con gli occhi oggetti che si trasformano in porte che alternano aperture da gatto a passaggi monumentali. Una porta si chiude e si riapre su una stanza senza finestre, un campanello con una targa in ottone: Prof. Ampelio Damigiani. Premo il pulsante, non ne esce suono ma mette in moto un antico ventilatore le cui pale muovono l'aria verso una girandola da bambini, infilata come un tulipano in un vaso di cristallo. La girandola gira, i colori si confondono. Il campanello serve a quello: inutile, quindi bello. Entro. Le suole crocchiano sul pavimento di vetro sbriciolato che riflette costellazioni immaginarie sui muri azzurro cielo. Al centro un grammofono a tromba, carico la manovella e il chiodo tira fuori dai solchi la nostalgia di Gardel, il suo sorriso spavaldo e una Buenos Aires che forse non c'è stata mai: bucce d'arancia tagliate a spirale fra i colori accesi delle facciate ondulate del Caminito, un minuscolo balcone ingombro di pentole in alluminio, ammaccate, annerite, inutilizzate. Monto su un cavallo che mi apre una tranquera nella pampa: mille manzi ci guardano passare annoiati, li richiamo, mi seguono curiosi. L'ultima tranquera si apre su un acquitrino, un armadillo ci affianca scansando i passi del cavallo, le piogge dell'anno prima ancora allagano la carretera e il baio si immerge lentamente puntando al sole lontano che cede all'orizzonte. Sui pali dei recinti piccoli rapaci stazionano pazienti in attesa delle bolle che annunciano il riemergere di piccoli anfibi. Il sole si allarga e prende intensità nell'aprire alla sera e il silenzio aumenta la sua compressione del tempo finché questo si ferma, immobile come l'acqua, come il vento, gli uccelli, il cavallo, come me che ho raccolto le gambe in alto sull'arcione per non immergere gli stivali e guardo incantato l'immensa magia della sera. Nella stanza cieca miniature alle pareti s'allargano su nuovi orizzonti: isolotti nel delta del Tigre, ville coloniali nell'oblio degli uomini, relitti di vaporiere, monumenti alla ruggine che pazienterà mille anni per sbriciolarle, passi andini, camion con le ruote lisce intraversati nella neve, liane che zampillano acqua, iguana pazienti alla base delle palafitte, fiumi come laghi,... Salto in un quadro, pedalo nella notte, strade lastricate, bagnate e scivolose, parchi, ponti e sottopassi, lampioni gialli, silenzi e suoni che escono e precipitano dalle finestre là in alto. Risate solitarie, pianti corali, gemiti a volte e incoscienti abbandoni, tappi stappati da mani maldestre, bicchieri infranti e rumori di stoviglie. Segrete ricette. Gigantesche vetrate, cori stonati, gargarismi soffocati e conati di vomito, urla silenzi sonni e risvegli, morti, resurrezioni, false verità e ingannevoli divinità in fuga su cavalli dalle ali brevi, perché gli dei rifiutano sempre le risposte. Matrimoni e divorzi da vuote promesse. Finestre che risucchiano il mondo a riempire stanze pneumatiche e gli inspiegabili affanni di passanti rigurgitati con le loro ambasce. Lame di luce attraversano le persiane a tagliarmi gli occhi, cola un liquido vischioso che mi chiama a uscire con voce metallica, mi immergo e nuoto lentamente, sempre più lentamente, il liquido si ritira e raggela il mio gesto sul pavimento. Tutto va in frammenti, senza rumori di fondo, ma subito si ricompongono figure misteriose che levitano fino al soffitto scomponendosi in novantanove variazioni cromatiche. Poi un puntino bianco percorre lo spazio con moto irrazionale e cancella ogni colore al suo passaggio, dei colori sembra nutrirsi dilatandosi inesorabilmente fino a rendere bianchi gli oggetti intorno e l'aria stessa. Io rimango immobile, i colori ce li ho dentro. Una musica compare all'improvviso, come un respiro che diventa affanno, contrae i volumi e li espande, altre musiche emergono e si contrastano e i suoni sono carne, dita viziose che s'insinuano a comprimere i timpani. Le orecchie nuotano contro un vento di note e rumori. Gli occhi si gonfiano e s'afflosciano, la visione è deforme e trasfigura ciò che è bello in bolle che esplodono sulle incertezze del naso e le narici s'allargano alla ricerca di aria per richiudersi a suggellare i vuoti fra un respiro e l'altro. La lingua in fuga, le labbra l'imprigionano fra i denti, un suono di gola esce, si perde senza ascolto, diventa sabbia, scandisce il tempo che non passa. Le pale di un ventilatore dal soffitto frullano aria liquida che scroscia sul piancito, spruzzi arrivano alle labbra, di nuovo non parole ma suoni che nessuno riceve. Cadono fiori e foglie di vetro, si sbriciolano al suolo e rinascono piante che non danno frutti. Un vento annoiato insegue le foglie secche. Alcune si rialzano a ricongiungersi coi rami. Sotto, gli umani sono manichini immobili, le vene sottopelle, magri, le ossa, i muscoli, pensieri che urlano, non ancora parole ma oggetti che escono e feriscono dove arrivano e svaniscono senza lasciare traccia. Restano mosche secche alle finestre, la loro voglia di uscire fissata in un tempo passato. Case vuote, ragnatele senza ragni, erba intorno, il vento la muove, arida, come si muove il mare di fronte, senza rumore. Cantilene infantili cantate da vecchi. Sole e freddo e vento perduto e tempo riguadagnato, come sfila e raccorcia la lenza un pesce ancora vivo. Allora i polmoni si sgonfiano, l'apnea è il tempo del pensiero, l'aria rioccupa i suoi spazi e tutto lava via, stropicciando ricordi, disperdendo fiori secchi, bottoni, spille da balia, chiavi di case che non val la pena ricordare, monete fuori corso, cartoline mai spedite, foto ingiallite, conchiglie, sabbie colorate, unghie secche, pelli squamate, ciocche di capelli che il tempo decolora e non allunga più.
Tiro il fiato.
Il silenzio è un suono prolungato...

domenica 19 giugno 2011

La carrucola rapita

Vorrei cantar quel memorando sdegno
ch'infiammò già ne' fieri petti umani
un'infelice e vil Secchia di legno
che tolsero a i Petroni i Gemignani.

Rimpastando date e fatti storici il secentesco Nobil Homo Alessandro Tassoni, poeta modenese, nell'ultima parte della sua vita si mise a tirare su la stramba impalcatura della Secchia Rapita, poema eroicomico in ottava rima che qualche fama gli avrebbe reso alla posterità.
Dopo una giovinezza dissoluta, completati gli studi, il nostro si mise al servizio di duchi e cardinali coltivando la passione per il campo letterario, dove poteva esprimere la sua personalità vivace e iraconda, carica di corrosiva vena polemica anti-aristotelica, riparando sovente sotto le tutele di un avveduto anonimato. La propensione alla prudenza dell'autore risalta dalla lunga gestazione editoriale del poema, la cui prima stesura è del 1614 ma vide le stampe a Parigi solo nel 1621. Per superare poi le fitte maglie della Congregazione dell'Indice dei Libri Proibiti della Chiesa Cattolica, Tassoni ne fece stampare nel 1624 una copia unica particolarmente purgata per il Papa Urbano VIII (quel Maffeo Barberini che per altri versi non fu certo un faro di virtù, praticando il nepotismo su vasta scala). Ma la versione definitiva fu stampata a Venezia nel 1630.
Il desiderio di nuovo del poeta diplomatico, unito alla ricerca di paradossali bizzarrie, lo convinse a ricombinare liberamente avvenimenti reali con storie immaginarie per ricavarne divertimento e stupore per il lettore e per sé stesso. Così, ispirandosi a un fatto d'armi noto come “la battaglia di Fossalta”, accaduto nel 1249 fra le armate dei Bolognesi e dei Modenesi, nelle sue pagine fece irrompere i primi nei domini di Modena per essere tosto respinti e inseguiti fino alle porte di Bologna dove – a suo dire - la soldataglia ducale, sostando a un pozzo per abbeverarsi, decise di portarsi via come goliardico trofeo una vecchia secchia di legno. I Bolognesi la presero di punta, sempre secondo il poeta, e s'imbufalirono non poco di fronte al rifiuto di riconsegnare la secchia, così che dichiararono guerra a Modena! Parrebbe che il furto della secchia, se in realtà è avvenuto, sia databile secoli dopo i conflitti tra le due città, ma al nostro tornava comodo attribuire al fatto la causa della guerra, magari per insinuare, sia pur velatamente, quanto basse siano le cose umane e quanta stoltezza possa ingenerare sanguinari conflitti. Poi, per potere infilare nella storia arguti riferimenti alla sua contemporaneità e giudizi polemici di carattere personale, vivacizzò il poema soffiando altre polveri sul campo di battaglia, facendo partecipare alla guerra gli dei dell'Olimpo, ripartiti nei due campi avversi, personaggi storici come il figliastro dell'Imperatore Federico II (quel Re Enzo di Sardegna che finì la sua carriera in riguardosa prigionia dei Bolognesi) e figure immaginarie come la bella amazzone Renoppia, che nella pugna comandava una schiera di donne guerriere mentre la notte teneva su il morale delle truppe cornificando a multipli il donchisciottesco consorte, il Conte di Culagna:
un cavalier bravo e galante,
filosofo poeta e bacchettone
ch'era fuor de' perigli un Sacripante,
ma ne' perigli un pezzo di polmone.
Spesso ammazzato avea qualche gigante,
e si scopriva poi ch'era un cappone...
In realtà, i mercenari modenesi, eccitati dal sangue, dal clangore della battaglia vinta e pure ebbri di lambrusco per le conseguenti libagioni, si provarono dapprima ad asportare la vera di quel pozzo presso il quale s'erano apprestati per lavare la ferraglia. Ma l'immane anello in pietra, tradotto in loco dalle cave appenniniche con otto pariglie di buoi da aratro, aveva ben resistito nella sua fissità. Così, desistendo da ulteriori sforzi, orientarono le loro oltraggiose attenzioni dapprima verso la vile secchia di legno, usandola a guisa di bugliolo, per asportare infine la corposa carrucola di cui fecero dono al loro capitano, a ornamento degno del suo alto arcione. La secchia, originale o copia poco importa, è ancor oggi esposta a mo' di beffardo trofeo nella modenese torre della Ghirlandina. Ma ciò che fece veramente andare in bestia i Felsinei fu la perdita di quella carrucola, robusta forgiatura in ferro con un anello da carichi pesanti ma ingentilita da un rocchetto in ottone fuso a cera persa, irripetibile manufatto perché – ad aggravare l'onta – gli armigeri Gemignani arruolarono involontario nelle proprie armi il fabbro ferraio che dalla bergamasca era venuto a terminare la propria stirpe proprio nel Bolognese. Così, poiché gli umani amano ripetersi, specie nelle proprie stupidità, furono ancora guerre e sangue e la carrucola cambiò di mano e di ducato, di pozzo in pozzo, di castello in torrazzo, nobilitata e poi svilita a tirar su sacchi di granaglie, sassi di fiume e vasche di calcina per finire irriconoscibile oramai, incrostata dagli ossidi del tempo, nella catasta indistinta di un raccoglitore di ferraglia dal quale parecchie idee io ho attinto.