In
verità quella volta io Missio e il Gorillino decidiamo di andare al
cine. Missio così è rimasto che da piccolo non riusciva a dire
Maurizio e dunque diceva Missio e quindi è Missio per tutti. Il
Gorillino ci avete in mente un gorilla ecco lui è uguale solo
piccolo ma è simpatico e neanche cattivo anche se da grande sarà
peloso e sarà un operaio che gli operai sono tutti pelosi. Io niente
lasciatemi perdere che potrei diventare cattivo meglio che sto con
loro che ci capiamo al volo. Dunque il rischio di andare al cine è
che si incrocia il prete che ti chiede perché non vai a messa a fare
la carestia e le opere di carità e lo spiritosanto e cristo e la
madonna di contorno ma il più grave è che trovi quelli di via
Buffolara che ti aspettano che allora sono guai perché quelli tirano
fuori le fionde quelle con gli elastici ritagliati delle camere
d'aria dei camios che fanno più male i proiettili quanto ti beccano
che in genere ci mettono le marolle delle albicocche o peggio delle
pesche che son più grosse e arrivano che sembrano cannonate senò
quando sembran buoni ci mettono dei chicchi d'uva rossa o dei
pomodorini che ti arriva un proiettile e invece è una sbroda che
si spatassa addosso e non va più via la macchia dai vestiti che poi
è la mamma che ti dà il resto. Ecco. Allora quella volta io il
Missio e il Gorillino decidiamo di andarci al cine ma prima ci
armiamo bene che non si sa mica mai così se arrivano quelli là glie
la facciamo vedere. Insomma tre fucili a elastico che dopo ti spiego
come si fanno e come funzionano anzi te lo spiego adesso che se non
li sai usare quelli sparano al contrario e ti ciecano un occhio
minimo. Dunque prendi un bastone di legno quadrato e ci pianti un
chiodo vicino alla punta come un mirino poi leghi dall'altra parte
una molletta di legno di quelle da bucato che la mamma ce ne ha tante
che una più una meno e la leghi con tanti giri di elastico poi gli
fai altri giri con un altro elastico che stringa forte i denti della
molletta quelli che devono tenere stretto un altro elastico ma mi
sono perso. Ricomincio. Il colpo del fucile a elastico è un elastico
che si fa con gli anelli di gomma di una camera d'aria di bicicletta
incatenati insieme fino alla lunghezza giusta che tirati sono ben
tirati fin che un poco il rosso della camera d'aria cambia colore e
si sbianca. Ecco quella catenella di elastici la attacchi al chiodo
nella punta del fucile e la tiri fino alla molletta che è il
grilletto del fucile che la apri a fatica che è stretta dagli
elastici e glielo blocchi dentro l'elastico da sparare. E quando
schiacci che apri la molletta senti un suono come di calabrone che
parte la catena di elastici e dove prende la pelle diventa viola
subito. Ecco. Poi ci avevamo nelle tasche di dietro le fionde che non
si sa mai che le forcelle le avevamo scelte bene fra i rami di gaggìa
dietro la ferrovia dove andavamo a far gli acrobati sui rami nuovi di
salice lungo i fossi. Le fionde noi gli abbiamo messo gli elastici
rossi ritagliati dalle camere d'aria delle ruote da bicicletta che
sono più morbidi e elastici di quelli neri da automobile che ci
vuole più forza ma quelli rossi sono più veloci e arrivano più
lontano. La culatta da metterci il proiettile quella sì può essere di camera d'aria da camios. Le cerbottane anche ci servono che
se vuoi fare degli scherzi dai secondi posti come tirare sulla melona
di quelli che stanno nei primi è forte che quando gli arriva il cono
di carta ci restano male ma fortuna per loro che non ci mettiamo lo
spillino nella punta. Allora arriviamo al cine noi tre coi fucili
nascosti e le fionde e le cerbottane e tutto quanto e al posto della
bigliettaia c'è il prete che gli diciamo i biglietti e lui mettete
giù quella roba che non ne voglio più sapere ma sono quelli della
via Buffolara gli dico e lui perdona il prossimo tuo che io mi guardo
indietro e non c'è nessuno così che non so chi perdonare e mi dice
non fare il furbo. Ecco io non sopporto di essere furbo che i furbi
non sono mica intelligenti allora gli dico ai miei amici noi non ci
andiamo più al cine e andiamo via. Così ho chiuso col prete e col
calcio che sono la stessa cosa che dicono che è una fede. La sera
ritorno con un cacciavite che tanto il prete la porta del cine non la
chiude mai a chiave e svito una sedia e mi porto via una sedia che me
la porto a casa che pesa ma bisogna stare attenti a come la prendi
con le mani che sotto al sedile è piena di caccole sicuro e sopra
rischia che ci sono appiccicate delle gomme da masticare che quando
non sanno più di niente si attaccano sopra i sedili che poi si
capisce se si siede un grande dalle madonne che tira quando si alza
mentre le caccole il suo posto è sotto così seccano con calma. Ecco
me la porto a casa e me la metto in camera che così il cine me lo
sogno io senza biglietto e ancora ce l'ho in camera mia anche se son
cresciuto che lì mi siedo a sognare e il film sono io. Che a me mi
piace il cine. Ancora oggi.
lunedì 19 dicembre 2011
giovedì 8 dicembre 2011
La parrucchiera di Flash Gordon
Un
misterioso pianeta punta dritto verso la Terra. La notizia sparge il terrore. Ignaro di quanto sta accadendo, un famoso campione
di polo viaggia su un aereo quando un meteorite staccatosi dal
pianeta assassino trancia di netto un'ala del velivolo facendolo
precipitare. Il biondo sportivo non si perde d’animo, afferra un
paracadute e si lancia abbracciando stretta la fascinosa vicina di
posto dai capelli corvini. Prima che tocchino terra Cupido ha
completato la sua opera ma a ingarbugliare gli eventi, già di per sé
poco comuni, i due poggiano i piedi vicino all'osservatorio
astronomico di uno scienziato che ha trovato un metodo originale per
evitare la collisione tra i due mondi: lanciarsi alla guida di un
razzo celeste contro il planetoide impazzito. Lo scienziato, che ha
il cervello più in orbita che in sede, costringe i due neo-fidanzati
a entrare con lui nel missile kamikaze.
Comincia
così all’inizio del 1934 l’epopea di Flash Gordon, sulle pagine
domenicali del New York American Journal, per mano del disegnatore
Alex Raymond. Fino a quel momento relegato a matita di seconda fila,
Raymond decide di fare ditta da solo riunendo in sé anche le
funzioni di colorista, soggettista, sceneggiatore e crea il
futuribile personaggio di Gordon per cercare di emulare lo
straordinario successo ottenuto da Buck Rogers e Brick Bradford, eroi
dei comics statunitensi di quegli anni. E Flash ci salta fuori bene,
arrivando a surclassare nella fama i due illustri predecessori! Dopo
tanto anonimato Alex Raymond raggiunse un grande successo popolare
che resistette per decenni, con un primo periodo decisamente
pionieristico e innovativo.
Ma
andiamo per ordine: tutto ha inizio quando Mongo, pianeta
diversamente affidabile, esce dalla sua orbita con la maligna volontà
di buttare per aria il pianeta Terra. Flash Gordon e Dale Arden fanno
coppia fissa fin da subito, entrando platealmente in scena. E’ il
barbuto scienziato Dottor Hans Zarkov che li chiama alla ribalta
coinvolgendoli in una folle odissea vero l’ignoto pianeta che per
dieci anni sarà teatro delle loro avventure. Cosa sarebbe potuto
capitare di peggio? Che la bella Dale pretendesse, come d'altronde
fece, di portare con sé la propria hairdresser: non si affrontano le
incognite di un viaggio intergalattico senza acconciature adeguate! -
disse - Cosa avrebbero potuto pensare di lei le principesse dei
popoli alieni che avrebbero incontrato? La coiffeuse avrebbe portato
con se il minimo indispensabile: un solo baule di ferri del mestiere
(bigodini forcine forbici pettini spazzole ferri per lo stiraggio a
caldo ciotole bacili asciugamani lozioni shampoo tinture necessaires
per manicure-pedicure,...) e uno straordinario casco per la
permanente che fascinò di molto lo scienziato perché anche nel
rombo vi intravide parentele coi motori del suo razzo (a parte il
colore). Completavano il carico altri tre bauli con le intere
collezioni dei principali fashion's magazines, quelli che lustravano
gli occhi dell'americana media con le illusioni di vite da sogno,
Women's Wear Daily, Harper's Bazaar, Vogue. Tempo ne avrebbero avuto
le due signore per tenersi aggiornate sugli ultimi dettami della
moda... Nel corso del viaggio, poi, anche la capigliatura ribelle di
Gordon avrebbe beneficiato della parrucchiera galattica, ma alla fine
cedette anche il burbero Zarkov.
Mongo
si rivela abitato da vari popoli, arretrati o tecnologicamente
avanzati, tutti sottomessi al perfido imperatore Ming. I terrestri si
fanno partigiani della causa del Principe Barin, legittimo
pretendente al trono di Mongo, sposo della figlia di Ming, la rossa e
provocante Aura. Sarà lei la prima fra le maliarde donne di Mongo a
farsi ammaliare dal fascino del bel terrestre e non cesserà di
ordire trame per farlo suo. Ma non sarà l’unica ad alimentare la
gelosia di Dale. Azura, la strega-regina dei magici Uomini Blu
ricorrerà ai suoi filtri per far innamorare di sé Gordon
togliendogli la memoria. E poi Undina, infida regina del Mondo
Subacqueo e infine Fria, regina del Mondo di Ghiaccio dal cuore in
fiamme per il biondo eroe. Fra un corteggiamento e l’altro le
battaglie non si risparmiano e, alla faccia del futuribile
prefigurato da Raymond, le armi utilizzate negli scontri sono spesso
spade, pugnali e altra ferraglia da taglio. Negli anni Trenta la
fantascienza è molto nei fondali e negli scenografici landscape
popolati da luccicanti razzi celesti e torri che si ergono fra le
nuvole come sviluppo fantastico del Chrysler Building o del suo
antagonista Empire State Building.
Le
avventure create da Raymond si affermano in un decennio quando, dopo
la Grande Depressione, il New Deal Rooseveltiano lancia “the
American way of life” e l’americano diventa “medio” (o aspira
a diventarlo). A lui ammiccano riviste patinate che gli propongono
elevazioni verso la upper-middle class da dove, alzandosi in punta di
piedi, avrebbe potuto lanciare il suo american dream verso le stanze
dorate dell’upper class.
Nel
1939 The New York World Fair, autoproclamata “Fiera del Futuro”
prometteva di mostrare ai visitatori “il mondo di domani” e i
comics, più ancora del cinema, ci davano dentro a spararle grosse
sul futuro inventando mondi popolati da mostri ferocissimi, tiranni
barbari e spietati, feroci guerrieri di stampo medievale. Nemici
della democrazia e del progresso. Precoci avvisaglie dell'imminente
Caccia alle Streghe dove gli alieni sarebbero diventati comunisti,
sordidi abitanti della faccia opposta del mondo libero...
domenica 27 novembre 2011
Oswald de Andrade: La battaglia non si perda! E Cambronne rispose
Questo
non è un saggio, non avrei i titoli neanche per un saggetto, ma un “invito
all'assaggio”, un atto di devozione anarco-letteraria verso un autore che a ogni
rilettura è capace di sorprendere la mia fantasia.
Profondamente colto, anticonformista, contestatore ante litteram,
campione tenace dell'anarchismo letterario, José Oswald de Souza Andrade fu
poeta, drammaturgo ma soprattutto narratore fra i più grandi e innovativi della
letteratura brasiliana del novecento. Fu anche autore di acrobatici saggi
anti-filosofici, La crisi della filosofia messianica, dove scompaginava
e ricomponeva a suo modo marxismo, psicanalisi e neopositivismo, e di teorie
letterarie evolutive del modernismo brasiliano, Manifesto Antropofago,
in cui propugnava il ritorno della cultura del suo paese a una ideale purezza tropicalista
precedente l'arrivo dei conquistatori europei (“Prima che i portoghesi
scoprissero il Brasile, il Brasile aveva scoperto la felicità”).
Oswald de Andrade sicuramente raggiunge i gradini più alti della sua
creatività in due opere narrative di difficile collocazione perché buttano
all’aria le sbarre di confine fra prosa e poesia, dapprima con Memorie
sentimentali di Giovanni Miramare (terminato nel 1923 e pubblicato nel
1924) poi con Serafino Ponte Grande “scritto dal 1929 (era di Wall
Street e Cristo) all'indietro” e pubblicato nel 1933. Forse però, l'apice della
sua creazione fu la sua stessa vita, vissuta fino in fondo come un romanzo
frammentato in stazioni disperse su vari continenti da un vento irrazionale.
Così Giuseppe Ungaretti (che già aveva tradotto la sua raccolta di
poesie Pau Brasil, Legno Brasile) scriveva nella sua prefazione a Memorie
Sentimentali (prefazione che da sola varrebbe la riedizione del volume):
“Non so quale fosse la sposa che aveva impalmato in quei giorni, settima,
undicesima oppure ventunesima. Non ebbero più donne Abramo, né Matusalemme né
Noè messi insieme, che devono averne godute moltitudini per popolare o
ripopolare questo pianetaccio, a differenza del povero Adamo che combinò tutto
con la sola povera Eva, guai o miracoli che fossero, dipende dai pareri. Tra la
moglie bambina e un quadro recente di Picasso che si baloccava tra le braccia,
raccontava storie dell'altro mondo, un po' come fosse il Padre Eterno o il suo
rivale da girarrosto. Aveva vissuto a Parigi, nababbo, non rastaquero (1), e
vi aveva scoperto tutto, annusato tutte le puzze e tutti gli olezzi, fino al
collo ficcato in tutte le trappole, uscendone indenne e bobo da bravo
illusionista. Non aveva riportato in Brasile, sposa, come succedeva allora al
sudamericano pingue di moneta quanto di corpo, la femmina che l'aveva adescato
chissà in quale lupanare di Lutezia, carnosa, di connotati correggeschi già
stuzzicante di libidine dal fugace adocchio.”
Giovanni Miramare ci attira in un labirinto
epico in prosa e in versi, un'opera rivoluzionaria e provocatoria nella forma e
nei molti linguaggi adottati, sarcasticamente inquadrata così nelle ultime
righe dall'autore per bocca del protagonista:
- Son già passato attraverso la migliore cernita della critica. Ho
letto le Memorie, prima dell'imbarco, al dott. Pilati.
- E lui?
- Il mio libro gli ha ricordato Virgilio, soltanto un po' più nervoso
nello stile.
Serafino Ponte Grande è un
grande “non-romanzo”, un “non-libro” campionatura di molti libri
possibili, evocativi di altrettanti generi letterari appena suggeriti per
essere tosto rinnegati, rimessi in discussione. Un libro che affascinò Fabrizio
De André influenzando la creazione del testo de “La domenica delle salme”,
musicata poi da Mauro Pagani. Fu in fondo alla sua copia del volume che De
André annotò di getto alcuni versi della canzone che nella stesura definitiva
riconosceva l'opera e l'autore brasiliano come fonte di ispirazione:
“A tarda sera io e il mio illustre cugino de Andrade
eravamo gli ultimi cittadini liberi
di questa famosa città civile
perché avevamo un cannone nel cortile”
In un'intervista del 1990 De André diceva: “Tra i molti poeti sudamericani che conosco, Oswald de Andrade è uno
dei miei preferiti, probabilmente per quel suo atteggiamento comportamentale
oltre che poetico totalmente libertario, per quel suo anticonformismo formale
che lo fa essere qualcosa di più e di meno e comunque di diverso da un poeta in
senso classico. E poi è dotato di un umorismo caustico difficilmente
riscontrabile in altri poeti dei primi del Novecento.”
De André/de Andrade, erano due artisti ostinati a viaggiare in
direzione contraria.
Ma ecco un illuminante autoritratto dello scrittore estratto “a sorte”
dal Serafino:
“Oggi, in casa mia, posso cantare a gola spiegata la Vedova allegra,
togliermi le caccole dal naso, scorreggiare sonoro. Posso liberamente fare
tutto quello che mi pare contro la morale e la decenza.”
“Mi presento al lettore. Pelotarista (2). Personaggio dietro una
vetrata. Impermeabile e galoches. Certi militari hanno cambiato la mia vita.
Gloria agli uomini di fede! Là fuori, quando asciugherà la pioggia, ci sarà il
sole.”...
“Eccitato da aspettative, plausi e manfrine capitaliste, il mio genio
letterario si impantanò più volte nella trincea social-reazionaria. Logicamente
dovevo diventare cattolico. La grazia piove sempre sul bagnato. Ma quando già
ero in ginocchio (con Jean Cocteau!) davanti alla vergine e studiavo il
Medioevo di san Tommaso, un prete e un arcivescovo, in un mezzodì poliziato
della San Paolo affarista, mi sfilarono il portafoglio ereditato. Li acchiappai
appena in tempo per la tonaca. Ma, è umano, persi la fede. Rimasi nella
borghesia, della quale, più che alleato, fui vessillo cretino
sentimental-poetico.
Dalla
mia anarchia di fondo sgorgava sempre una sorgente sana, il sarcasmo. Servii la
borghesia senza crederci. Come il cortigiano sfruttato tagliava le ridicole
vesti del Reggente.
Il brasiliano a vanvera in balia dell'alta marea nell'ultima tappa del
capitalismo. Ballista. Opportunista e ribelle. Conservatore e sensuale. Sposato
per forza (in altra sede si definì: “monogamo successivo”). Preferisco
semplicemente dichiararmi nauseato di tutto. E con un unico obiettivo. Essere,
per lo meno, testa di ferro della Rivoluzione Proletaria.
Eroica missione per uno che è stato chierichetto, ha ballato la
quadriglia a Minas e si è travestito da turco a bordo.
Sia quel che sia. Impossibile tornare indietro. Il mio orologio va
sempre avanti. La Storia pure.”
Rio, febbraio 1933
Oswald de Andrade
(1) Rastaquero: Avventuriero
(2) Pelotarista:
giocatore di pelota
“La
battaglia non si perda...” qui posta a titolo, si ritrova in realtà in
epigrafe, in apertura di “Serafino Ponte Grande”.
“Memorie sentimentali di Giovanni Miramare” è stato pubblicato da
Feltrinelli nel 1970. “Serafino Ponte Grande” è uscito da Einaudi nel 1976. L'edizione originale di quest'ultimo portava, a tergo del frontespizio,
la seguente nota: “Diritto di essere tradotto, riprodotto e deformato in tutte
le lingue. San Paolo, 1933”.
Viene voglia di prenderlo alla lettera: dagli anni settanta ad oggi non
si è avuta purtroppo nessuna riedizione dei due volumi!
Ci vorrebbe davvero un bel coraggio a fare l'editore ai giorni
nostri...
giovedì 6 ottobre 2011
A tavola sul palcoscenico
Se
all’attore dionisiaco avessero vaticinato che, smaltita l’ebbrezza,
sarebbero seguiti secoli di fame e di vita grama come un malaugurio,
fra scomuniche delle autorità religiose e persecuzioni di quelle
civili, forse a tanto calvario avrebbe preferito il coma etilico, per
non riaversi più dalla sbronza. Fortuna che qualche nume deve averlo
convinto che solo “attraverso le difficoltà si diventa star”
(per aspera ad astra,
dicevano appunto gli
antichi) così il nostro, caricata la croce, si è incamminato verso
di noi, intraprendendo una plurisecolare carriera legata
indissolubilmente, così come la storia stessa del teatro, al
“doppio” spettrale del cibo e della tavola: la fame.
Alle
remote origine del teatro, nell’esaltazione dei riti dionisiaci,
l’attore, con sacralità sacerdotale, officiava la ricerca di un
contatto con la divinità. All’apice della civiltà greca
l’hypocritós
veniva tenuto in alta considerazione, con uno status di grande
privilegio, ma dopo quel periodo aureo inizia per lui una lunga
decadenza civile che lo vedrà schiavo, essere inferiore dedito a
un’attività abietta (i guitti venivano seppelliti in terra
sconsacrata, le attrici venivano considerate alla stregua delle
prostitute), sempre assillato dalla fame e dai disagi esistenziali di
un mestiere precario che, se in alcune fortunate occasioni poteva
godere degli avanzi delle tavole di corte, frequentemente ricadeva in
penurie quaresimali. Fino a tutto l’Ottocento, nei quaranta giorni
che seguivano il carnevale, interdetti alle rappresentazioni, le
compagnie si scioglievano e lo spettro della fame si ingigantiva
tanto che a esorcizzarlo ancor oggi sopravvive la superstizione che
bandisce il viola quaresimale in teatro.
Le
due più famose maschere della Commedia dell’Arte, Arlecchino e
Pulcinella, erano affratellate da un comune nemico, la fame, che
trovava rimedio solo in un’utopistica abbondanza, nell’apologia
virtuale dell’abbuffata, nel nutrirsi di iperboli, nello sberleffo,
almeno sul palcoscenico, a una cultura che a dispetto delle carestie
imperanti aveva voluto classificare la gola fra i sette peccati
capitali. La fame era così diffusa da superare come flagello la
peste, ma solo per quest’ultima era consentito inventarsi
l’esistenza di untori.
Gran
cantore di un mondo contadino che tra miseria e fame non riusciva a
sbarcare il lunario fu un drammaturgo veneto del Rinascimento, Angelo
Beolco detto Ruzante. Paradigmatica la sua commedia Bilòra,
il cui protagonista, alla
desolante vuotezza della dispensa deve affiancare quella del talamo,
abbandonato dalla consorte che gli ha preferito gli agi di un vecchio
cicisbeo veneziano.
All’epoca
della Commedia dell’Arte ogni luogo poteva divenire teatro. Le
rappresentazioni si svolgevano tanto all’aperto che al chiuso,
nelle fiere, nei palazzi nobiliari, nelle piazze dei mercati, nelle
arene destinate ai combattimenti fra animali, in taverne dove
l’avventore diventava spettatore e viceversa, realizzando momenti
di coinvolgimento conviviale come si ritrovano ormai solo nelle
culture teatrali orientali o del sud del mondo.
Nel
teatro elisabettiano il pubblico poteva assistere alla
rappresentazione delle opere di Shakespeare o di Ben Jonson mangiando
e conversando, cambiando di posto e intervenendo con commenti ad alta
voce sulla vicenda, il popolo in piedi e i nobili accomodati
direttamente sul palcoscenico. La lunghezza di certi testi, oggi
difficilmente e raramente riproponibili nella loro integralità, era
affrontabile allora perché la vita scorreva con ritmi notevolmente
più lenti ma anche grazie a condizioni di convivialità che
permettevano di alleggerire l’attenzione sulle parti di raccordo
delle rappresentazioni.
Cibo
e teatro, corteggiandosi a vicenda, si sono spesso occupati reciproci
spazi. Mentre ancora gli spettatori potevano mangiare nel corso
delle recite, lo spettacolo diveniva ospite d’onore nei banchetti
medievali di tutta Europa. Dapprima semplici esibizioni di arte
varia, con musici e saltimbanchi che intrattenevano i commensali fra
una portata e l’altra, questi inserti in Spagna vennero chiamati
entremés
e si affinarono in un vero e proprio genere di intermezzo fra gli
atti degli spettacoli teatrali, molto fiorente fino al XVIII secolo.
E’ curioso che del termine corrispettivo francese, entremets
(tramezzi,
li chiamò Artusi), si
sia riappropriata nell’Ottocento la gastronomia per designare quei
piatti che riempivano le pause fra una portata e l’altra, alla
faccia della fame e della gotta.
A
partire dal Cinquecento, e ancor più nel Seicento, il teatro inizia
a istituzionalizzarsi con la costruzione di luoghi deputati alla
rappresentazione degli spettacoli musicali e teatrali, dai quali il
cibo verrà escluso, cosicché lo spettatore, appagato lo spirito, il
ristoro del palato dovrà arrangiarselo altrove. Poi, scavalcando un
secolo e buttando all’aria troni e parrucche, privilegi e
convenzioni, irruppe sulla scena europea la Marsigliese con la sua
rivoluzione che finalmente restituì all’attore uno status civile,
abrogandone la presunzione di infamità, e involontariamente gettò
le basi per la nascita dei moderni ristoranti disoccupando e
costringendo ad affacciarsi al mercato gli chef i cui nobili padroni
venivano decollati.
In
Italia, oramai esclusa dal teatro “drammatico”, la vettovaglia si
ripresenta abbondante fra stucchi e velluti in occasione delle
rappresentazioni delle opere liriche che, per durata e conformazione,
potevano contemplare momenti di “calo d’attenzione”. Ma il cibo
si arrestava nei retropalchi che, essendo di proprietà di singoli o
di associazioni di privati, godevano di una completa “autonomia
territoriale”: cucine o alcove, secondo la bisogna. Ancora negli
anni cinquanta e sessanta, in alcuni teatri lirici emiliani,
approdavano nei retropalchi coppe, salami e culatelli, cotechini,
buşeca e cappelletti in brodo, i cui profumi si confondevano con le
“arie” e inebriavano gli animi con l’ausilio di adeguati
beveraggi, a celebrazione del palato in onore dell’ugola.
Attraverso
i secoli fame, cibo, cucina e tavola si ripresentano in palcoscenico
nei drammi e nelle commedie di alcuni autori fra i più
rappresentati, assumendo talvolta la valenza di dramatis
personæ, con il peso
drammaturgico di un vero personaggio.
Shakespeare, Molière, fino
a Goldoni che al suo Arlecchino fa dire: “Ho servido in tavola do
padroni e un non ha savudo de l’altro. Ma se ho servido per do,
adess voio andar a magnar per quattro”. E più vicino a noi
Pirandello, Brecht e financo Beckett con le rarefatte atmosfere e le
battute ultimative dei suoi personaggi:
Hamm
Non ti darò più niente da
mangiare.
Clov
Allora moriremo.
Eduardo
De Filippo, col suo amore profondo per la cucina borbonica
napoletana, si distingue per
la puntigliosità con cui prescrive che nelle sue commedie il caffè
o il ragù vengano preparati per davvero in scena, che il loro
profumo raggiunga gli spettatori, e così la tavola diviene
palcoscenico della vita quotidiana. Pensiamo a Questi
fantasmi, Natale in casa Cupiello, Sabato,domenica e lunedì, Napoli
milionaria, Filomena Maturano, dove
intorno alla tavola sono
alla fine sempre i sentimenti buoni, quelli piccolo borghesi, a
trionfare.
Si
completa dunque, nella provvisorietà dello scorso secolo, la
parabola che porta il teatro e l’attore a riscattarsi dalla fame
predisponendoli finalmente al salto dall’indigenza congenita alla
soddisfazione dell’appetito, all’evoluzione di quest’ultimo
nella sua forma subliminale, la golosità come rivalsa sulla fame, e
in alcuni casi alla sua degenerazione in ingordigia, favorendo la
diffusione di tanti luoghi comuni sulla propensione per la buona
tavola di tanti attori che interpretano le tournée dei propri
spettacoli come tappe da un ristorante all’altro.
Infine,
nell’era dell’abbondanza e degli eccessi, con un improbabile
scambio di ruoli, nascono attori che si divertono a fare i cuochi e
chef che si credono attori.
Ma
qui principia tutt’un'altra commedia.
(Dall'introduzione
di un mio libro del '94, con qualche piccolo ritocco).
domenica 28 agosto 2011
Je suis professeur de guitare sommaire.
Je ne suis pas ici pour vous distraire, mais pour
instruire.
Après je prends ma retraite.
Une guitare...est un instrument... en forme de
guitare...qui comporte six cordes. Si l'on partage la
guitare en deux par le milieu (ce qui n'est pas à
conseiller...)
On obtient deux moitiés de guitare... et ...3 cordes
d'un côté... 3 cordes de l'autre.
Ces 3 cordes du haut s'appellent par conséquent
les basses... en guitare "classique" !
En guitare "sommaire" on ne les appelle pas :
on les ignore !
Sorriso incerto, che quasi deraglia nella cornice irregolare di una barbetta da satiro, cantastorie di favole che si sono perse per strada, cuginetto di Zazie più che nipotino di Queneau, Boby Lapointe, anche se non proprio in quest'ordine, apre un negozio a Parigi, fallisce, divorzia, cambia mestiere, fa l'installatore di antenne tv, scrive e s'inventa cantante, banditore dei suoi giochi di parole con l'accompagnamento di una fanfara. E' il 1956. Diventa amico di Brassens e di Truffaut, che lo introduce al cinema come attore. Canta e beve (abbondando nella seconda attività). Apre un caffè-concerto, ma fallisce ancora. Le sue canzoni raggiungono il successo nei primi anni sessanta.
Si l'on ne voit pas pleurer les poissons
Qui sont dans l'eau profonde
C'est que jamais quand ils sont polissons
Leur maman ne les gronde
Quand ils s'oublient à faire pipi au lit
Ou bien sur leurs chaussettes
Ou à cracher comme des pas polis
Elle reste muette
La maman des poissons elle est bien gentille!
Ell' ne leur fait jamais la vie
Ne leur fait jamais de tartine
Ils mangent quand ils ont envie
La maman des poissons elle a l'oil tout rond
Ses petits l'aiment bien, elle est bien gentille
Et moi je l'aime bien avec du citron...
L'ho sentita canticchiare qualche anno fa a Daniel Pennacchioni, il papà di Benjamin Malaussène, La maman des poissons. Boby Lapointe l'ho scoperto così, me ne sono innamorato in ritardo. Sempre in tempo però.
(J'ai fantaisie):
Ce Samedi soir ell' revenait de son usine
Les bras chargés de billets bleus bien mérités
Sous les regards concupiscents de ses copines
Le cœur joyeux vers son foyer
Ell' se hâtait
En la voyant sa maman fut bien satisfaite
Elle lui dit, prenant son air des jours de fête
Mets un chapeau, lav' toi les mains, faisons toilette
Ce soir ma fille, nous allons bien nous amuser!
J'ai fantaisie de mett' dans notre vie
Un p'tit grain de fantaisie ! Youpi, Youpi'
Allons au cinéma du quartier
Ça s'rait folie d'faire les frais d'une entrée
Mais nous verrons la sortie... Youpi, Youpi !
C'est amusant de voir les gens qui en sortant
Ont l'ai si tristes ! Oh ! Oh ! Oh !
Si tristes ! Oh ! Oh !
C' qu'on s'amuse en buvant un' limonad'
Oh ! la ! la ! j'en suis malade.
Appassionato di matematica, nel '68, mentre Parigi, Regina di Maggio, viene rivoltata, lui, che la fantasia al potere gliel'aveva già mandata da un pezzo, s'inventa un sistema di numerazione in base 16 precursore dell'informatica e lo chiama “Bibibinaire”. Sembra uno dei suoi giochi di parole ma sta per 2 elevato al quadrato elevato al quadrato, una formula ancor oggi nota come Numerazione Bibi.
Intanto continua a scrivere canzoni, fa in tempo a registrarne una cinquantina, poi a
cinquant'anni il cancro gli impone il suo assolo. Georges Brassens lo rimpiange così: «Ce satané Boby Lapointe, depuis qu'il a tourné le coin, à Pézenas comme à Paris ses copains et admirateurs ont du mal à s'y habituer. En ce qui me concerne, les soirs où son amitié et sa bonhomie me manquent un peu, je fais comme si rien n'était, j'écoute ses chansons pour qu'il continue à vivre, le bougre, et il continue. Mon vieux Boby, putain de moine et de Piscénois, fais croire à qui tu veux que tu es mort; avec nous les copains ça ne prend pas».
Ce Soir Au Bar De La Gare
Igor Hagard Est Noir
il N'arrête Guère De Boire
car Sa Katia, Sa Jolie Katia
vient De Le Quitter
sa Katie L'a Quitté
Tic-Tac Tic-Tac
Ta Katie T'a Quitté
t'es Cocu Qu'attends-Tu ?
cuite-Toi T'es Cocu
t'as Qu'à, T'as Qu'à T'cuiter
et Quitter Ton Quartier
ta Katie T'a Quitté
ta Tactique Était Toc
des Catins Décaties
taquinaient Un Cocker Coquin
et D'étiques Coquettes
tout En Tricotant
caquetaient Et Discutaient Et Critiquaient
un Comte Toqué
qui Comptait En Tiquant
tout Un Tas De Tickets De Quai
quand Tout À Coup
tic-Tac-Tic Driiiing !
Le sette testine dipinte a mano riprodotte nell'immagine, alcune in gesso altre in terracotta, le comprai a Parma quand'ero ragazzo, in uno storico laboratorio di giochi e scherzi che svuotava il magazzino prima di chiudere definitivamente l'attività (la qualità artigianale aveva fatto il suo tempo, la gente si rivolgeva ormai ad altre distrazioni). Mi sembrava che quelle faccine da pupazzi di pezza potessero raffigurare degnamente la mimica facciale da clown triste di Boby Lapointe, il suo sguardo disilluso, la bocca piegata in un sorriso ingenuo e sarcastico...
sabato 25 giugno 2011
Camera d'Aria (lo specchio delle nuvole)
La stanza si espande e si contrae come un polmone, le lampade s'avvicinano come fari d'automobile poi sono inarrivabili galassie, come in un cannocchiale all'incontrario. Il pavimento in piastrelle bianche e nere è Vasarely che spancia verso il basso, come una tela elastica. Camminarci mima l'incertezza del percorso umano, ogni passo si inabissa verso il centro, poi il piano si rapprende come ragnatela e mi lascia sospeso nel nulla. I pensieri sono parole scardinate in passati remoti che ritornano a inscenare girotondi dove io ruoto mutando velocità e tocco con gli occhi oggetti che si trasformano in porte che alternano aperture da gatto a passaggi monumentali. Una porta si chiude e si riapre su una stanza senza finestre, un campanello con una targa in ottone: Prof. Ampelio Damigiani. Premo il pulsante, non ne esce suono ma mette in moto un antico ventilatore le cui pale muovono l'aria verso una girandola da bambini, infilata come un tulipano in un vaso di cristallo. La girandola gira, i colori si confondono. Il campanello serve a quello: inutile, quindi bello. Entro. Le suole crocchiano sul pavimento di vetro sbriciolato che riflette costellazioni immaginarie sui muri azzurro cielo. Al centro un grammofono a tromba, carico la manovella e il chiodo tira fuori dai solchi la nostalgia di Gardel, il suo sorriso spavaldo e una Buenos Aires che forse non c'è stata mai: bucce d'arancia tagliate a spirale fra i colori accesi delle facciate ondulate del Caminito, un minuscolo balcone ingombro di pentole in alluminio, ammaccate, annerite, inutilizzate. Monto su un cavallo che mi apre una tranquera nella pampa: mille manzi ci guardano passare annoiati, li richiamo, mi seguono curiosi. L'ultima tranquera si apre su un acquitrino, un armadillo ci affianca scansando i passi del cavallo, le piogge dell'anno prima ancora allagano la carretera e il baio si immerge lentamente puntando al sole lontano che cede all'orizzonte. Sui pali dei recinti piccoli rapaci stazionano pazienti in attesa delle bolle che annunciano il riemergere di piccoli anfibi. Il sole si allarga e prende intensità nell'aprire alla sera e il silenzio aumenta la sua compressione del tempo finché questo si ferma, immobile come l'acqua, come il vento, gli uccelli, il cavallo, come me che ho raccolto le gambe in alto sull'arcione per non immergere gli stivali e guardo incantato l'immensa magia della sera. Nella stanza cieca miniature alle pareti s'allargano su nuovi orizzonti: isolotti nel delta del Tigre, ville coloniali nell'oblio degli uomini, relitti di vaporiere, monumenti alla ruggine che pazienterà mille anni per sbriciolarle, passi andini, camion con le ruote lisce intraversati nella neve, liane che zampillano acqua, iguana pazienti alla base delle palafitte, fiumi come laghi,... Salto in un quadro, pedalo nella notte, strade lastricate, bagnate e scivolose, parchi, ponti e sottopassi, lampioni gialli, silenzi e suoni che escono e precipitano dalle finestre là in alto. Risate solitarie, pianti corali, gemiti a volte e incoscienti abbandoni, tappi stappati da mani maldestre, bicchieri infranti e rumori di stoviglie. Segrete ricette. Gigantesche vetrate, cori stonati, gargarismi soffocati e conati di vomito, urla silenzi sonni e risvegli, morti, resurrezioni, false verità e ingannevoli divinità in fuga su cavalli dalle ali brevi, perché gli dei rifiutano sempre le risposte. Matrimoni e divorzi da vuote promesse. Finestre che risucchiano il mondo a riempire stanze pneumatiche e gli inspiegabili affanni di passanti rigurgitati con le loro ambasce. Lame di luce attraversano le persiane a tagliarmi gli occhi, cola un liquido vischioso che mi chiama a uscire con voce metallica, mi immergo e nuoto lentamente, sempre più lentamente, il liquido si ritira e raggela il mio gesto sul pavimento. Tutto va in frammenti, senza rumori di fondo, ma subito si ricompongono figure misteriose che levitano fino al soffitto scomponendosi in novantanove variazioni cromatiche. Poi un puntino bianco percorre lo spazio con moto irrazionale e cancella ogni colore al suo passaggio, dei colori sembra nutrirsi dilatandosi inesorabilmente fino a rendere bianchi gli oggetti intorno e l'aria stessa. Io rimango immobile, i colori ce li ho dentro. Una musica compare all'improvviso, come un respiro che diventa affanno, contrae i volumi e li espande, altre musiche emergono e si contrastano e i suoni sono carne, dita viziose che s'insinuano a comprimere i timpani. Le orecchie nuotano contro un vento di note e rumori. Gli occhi si gonfiano e s'afflosciano, la visione è deforme e trasfigura ciò che è bello in bolle che esplodono sulle incertezze del naso e le narici s'allargano alla ricerca di aria per richiudersi a suggellare i vuoti fra un respiro e l'altro. La lingua in fuga, le labbra l'imprigionano fra i denti, un suono di gola esce, si perde senza ascolto, diventa sabbia, scandisce il tempo che non passa. Le pale di un ventilatore dal soffitto frullano aria liquida che scroscia sul piancito, spruzzi arrivano alle labbra, di nuovo non parole ma suoni che nessuno riceve. Cadono fiori e foglie di vetro, si sbriciolano al suolo e rinascono piante che non danno frutti. Un vento annoiato insegue le foglie secche. Alcune si rialzano a ricongiungersi coi rami. Sotto, gli umani sono manichini immobili, le vene sottopelle, magri, le ossa, i muscoli, pensieri che urlano, non ancora parole ma oggetti che escono e feriscono dove arrivano e svaniscono senza lasciare traccia. Restano mosche secche alle finestre, la loro voglia di uscire fissata in un tempo passato. Case vuote, ragnatele senza ragni, erba intorno, il vento la muove, arida, come si muove il mare di fronte, senza rumore. Cantilene infantili cantate da vecchi. Sole e freddo e vento perduto e tempo riguadagnato, come sfila e raccorcia la lenza un pesce ancora vivo. Allora i polmoni si sgonfiano, l'apnea è il tempo del pensiero, l'aria rioccupa i suoi spazi e tutto lava via, stropicciando ricordi, disperdendo fiori secchi, bottoni, spille da balia, chiavi di case che non val la pena ricordare, monete fuori corso, cartoline mai spedite, foto ingiallite, conchiglie, sabbie colorate, unghie secche, pelli squamate, ciocche di capelli che il tempo decolora e non allunga più.
Tiro il fiato.
Il silenzio è un suono prolungato...
lunedì 20 giugno 2011
domenica 19 giugno 2011
La carrucola rapita
Vorrei cantar quel memorando sdegno
ch'infiammò già ne' fieri petti umani
un'infelice e vil Secchia di legno
che tolsero a i Petroni i Gemignani.
Rimpastando date e fatti storici il secentesco Nobil Homo Alessandro Tassoni, poeta modenese, nell'ultima parte della sua vita si mise a tirare su la stramba impalcatura della Secchia Rapita, poema eroicomico in ottava rima che qualche fama gli avrebbe reso alla posterità.
Dopo una giovinezza dissoluta, completati gli studi, il nostro si mise al servizio di duchi e cardinali coltivando la passione per il campo letterario, dove poteva esprimere la sua personalità vivace e iraconda, carica di corrosiva vena polemica anti-aristotelica, riparando sovente sotto le tutele di un avveduto anonimato. La propensione alla prudenza dell'autore risalta dalla lunga gestazione editoriale del poema, la cui prima stesura è del 1614 ma vide le stampe a Parigi solo nel 1621. Per superare poi le fitte maglie della Congregazione dell'Indice dei Libri Proibiti della Chiesa Cattolica, Tassoni ne fece stampare nel 1624 una copia unica particolarmente purgata per il Papa Urbano VIII (quel Maffeo Barberini che per altri versi non fu certo un faro di virtù, praticando il nepotismo su vasta scala). Ma la versione definitiva fu stampata a Venezia nel 1630.
Il desiderio di nuovo del poeta diplomatico, unito alla ricerca di paradossali bizzarrie, lo convinse a ricombinare liberamente avvenimenti reali con storie immaginarie per ricavarne divertimento e stupore per il lettore e per sé stesso. Così, ispirandosi a un fatto d'armi noto come “la battaglia di Fossalta”, accaduto nel 1249 fra le armate dei Bolognesi e dei Modenesi, nelle sue pagine fece irrompere i primi nei domini di Modena per essere tosto respinti e inseguiti fino alle porte di Bologna dove – a suo dire - la soldataglia ducale, sostando a un pozzo per abbeverarsi, decise di portarsi via come goliardico trofeo una vecchia secchia di legno. I Bolognesi la presero di punta, sempre secondo il poeta, e s'imbufalirono non poco di fronte al rifiuto di riconsegnare la secchia, così che dichiararono guerra a Modena! Parrebbe che il furto della secchia, se in realtà è avvenuto, sia databile secoli dopo i conflitti tra le due città, ma al nostro tornava comodo attribuire al fatto la causa della guerra, magari per insinuare, sia pur velatamente, quanto basse siano le cose umane e quanta stoltezza possa ingenerare sanguinari conflitti. Poi, per potere infilare nella storia arguti riferimenti alla sua contemporaneità e giudizi polemici di carattere personale, vivacizzò il poema soffiando altre polveri sul campo di battaglia, facendo partecipare alla guerra gli dei dell'Olimpo, ripartiti nei due campi avversi, personaggi storici come il figliastro dell'Imperatore Federico II (quel Re Enzo di Sardegna che finì la sua carriera in riguardosa prigionia dei Bolognesi) e figure immaginarie come la bella amazzone Renoppia, che nella pugna comandava una schiera di donne guerriere mentre la notte teneva su il morale delle truppe cornificando a multipli il donchisciottesco consorte, il Conte di Culagna:
… un cavalier bravo e galante,
filosofo poeta e bacchettone
ch'era fuor de' perigli un Sacripante,
ma ne' perigli un pezzo di polmone.
Spesso ammazzato avea qualche gigante,
e si scopriva poi ch'era un cappone...
In realtà, i mercenari modenesi, eccitati dal sangue, dal clangore della battaglia vinta e pure ebbri di lambrusco per le conseguenti libagioni, si provarono dapprima ad asportare la vera di quel pozzo presso il quale s'erano apprestati per lavare la ferraglia. Ma l'immane anello in pietra, tradotto in loco dalle cave appenniniche con otto pariglie di buoi da aratro, aveva ben resistito nella sua fissità. Così, desistendo da ulteriori sforzi, orientarono le loro oltraggiose attenzioni dapprima verso la vile secchia di legno, usandola a guisa di bugliolo, per asportare infine la corposa carrucola di cui fecero dono al loro capitano, a ornamento degno del suo alto arcione. La secchia, originale o copia poco importa, è ancor oggi esposta a mo' di beffardo trofeo nella modenese torre della Ghirlandina. Ma ciò che fece veramente andare in bestia i Felsinei fu la perdita di quella carrucola, robusta forgiatura in ferro con un anello da carichi pesanti ma ingentilita da un rocchetto in ottone fuso a cera persa, irripetibile manufatto perché – ad aggravare l'onta – gli armigeri Gemignani arruolarono involontario nelle proprie armi il fabbro ferraio che dalla bergamasca era venuto a terminare la propria stirpe proprio nel Bolognese. Così, poiché gli umani amano ripetersi, specie nelle proprie stupidità, furono ancora guerre e sangue e la carrucola cambiò di mano e di ducato, di pozzo in pozzo, di castello in torrazzo, nobilitata e poi svilita a tirar su sacchi di granaglie, sassi di fiume e vasche di calcina per finire irriconoscibile oramai, incrostata dagli ossidi del tempo, nella catasta indistinta di un raccoglitore di ferraglia dal quale parecchie idee io ho attinto.
martedì 24 maggio 2011
Cigola la carrucola di Montale
Alle volte resta poco tempo per pensare e su questa carrucola antica, forgiatura ciclopica in ferro con un anello da tori e una coppiglia che pare sfilata da una botola castellana ma ingentilita da un rocchetto in ottone fuso a cera persa, su questa carrucola preziosa e forte sto lambiccandomi da tempo per imbastire una storia che so già da dove spunta e quali labirinti percorre ma mi fa piacere attendere a darle uno sbocco.
In attesa (solo io) della "Carrucola 2", godiamoci Eugenio Montale, "povero diavolo e non uomo di lettere professionale", che la carrucola della sua mente aveva fatto cigolare da un bel pezzo:
Cigola la carrucola del pozzo
l'acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un'immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro...
Ah che già stride
la ruota, ti ridona all'atro fondo,
visione, una distanza ci divide.
Eugenio Montale
domenica 8 maggio 2011
La cassaforte della mia memoria
Scicli, provincia di Ragusa, nel percorso di ritorno da Gozo (Malta) del Grand Tour of Taste – Porsche Italia Press Club Meeting 2011. La grotta-bottega di Ninu Manenti, u Russu, “U Lantirnaru” dal 1952, mi è apparsa come un ricordo che riemerge dal tempo. “Merzbau” di caccavelle, U Russu, inconsapevole epigono di Schwitters, ha suonato la sveglia della mia memoria, ma dovevo sbarcare a Napoli per ricordarmi una canzone che Roberto Murolo e poi Renato Carosone con quel clown occhialuto di Gegè Di Giacomo cantavano nelle radioline della mia infanzia. Mi son preso con questa foto l'intera bottega d'U Lantirnaru, creazione labirintica, apoteosi manifesta della grazia infinitamente preziosa del cascame.
'A Casciaforte
(Mangione - Valente)
Vaco truvanno na casciaforte,
E andivinate pe' ne fa' che?
Non tengo titoli
Non vivo ' rendita
Non c'ho un vestito pe' ccuollo a me!
Ma a cascia mi necessita...
Pe' forza l'aggi' 'a tene'
C'aggia mettere tutte 'e lettere
Che mi ha scritto Rosina mia,
Nu ritratto formato visita
D' 'a bonanema 'e zi' Sufia...
Nu cierro 'e capille
Nu cuorno 'e curallo
Ed il becco del pappagallo
Che noi perdemmo nel ventitrè...
Pe-re-pe-re-pe-re-ppe-ppe-rè
Sono ricordi che in cassaforte
Sulo llà dinto t' 'e può stipa'...
Quando mi privano
Del companatico,
Io 'ngotto e zitto senza sferra'...
Lo so, la vita é tragica
Ma 'a cascia me l'hann' 'a da'!
E andivinate pe' ne fa' che?
Non tengo titoli
Non vivo ' rendita
Non c'ho un vestito pe' ccuollo a me!
Ma a cascia mi necessita...
Pe' forza l'aggi' 'a tene'
C'aggia mettere tutte 'e lettere
Che mi ha scritto Rosina mia,
Nu ritratto formato visita
D' 'a bonanema 'e zi' Sufia...
Nu cierro 'e capille
Nu cuorno 'e curallo
Ed il becco del pappagallo
Che noi perdemmo nel ventitrè...
Pe-re-pe-re-pe-re-ppe-ppe-rè
Sono ricordi che in cassaforte
Sulo llà dinto t' 'e può stipa'...
Quando mi privano
Del companatico,
Io 'ngotto e zitto senza sferra'...
Lo so, la vita é tragica
Ma 'a cascia me l'hann' 'a da'!
C'aggia mettere tutt' 'e lettere
Che mi ha scritto Rosina mia...
Il mozzone di una steàrica
Conficcato nella bugia,
Na bambola e Miccio,
Na lente in astuccio
E una coda di cavalluccio
Che mi ricorda la meglio età...
Pa-ra-pa-ra-pa-ra-ppa-ppa-rà
Vaco truvanno na casciaforte
Ma a qua' casciere ce 'o vaco a dì?
Certe reliquie,
Cierti cimeli
Si 'e tiene 'a fore ponno spari'...
San Casimiro martire
'sta cascia famm' 'a veni'!
C'aggia mettere tutt' 'e lettere
Che mm'ha scritto Rosina mia,
Na cartella di lire dodici
Rilasciata dall'agenzia...
Na maneca 'e sicchio,
Na crastula 'e specchio,
Na corteccia di cacio vecchio
E un fracchesciasso color cakì
Pi-ri-pi-ri-pi-ri-ppi-ppi-rì
martedì 12 aprile 2011
Agata ha perso il suo primo dentino!
Ci lavorava da giorni con la punta della lingua, portando avanti il mento, spingendo il dente avanti e indietro, sentendo che piano piano cedeva aumentando il dondolìo. Questa è la piccola storia di qualcosa che non potrei mai vendere, primo perché l'oggetto non mi appartiene, secondo perché... lo scoprirete in seguito.
Intanto lei ci ragionava su.
- Ti devo dire una cosa: si perde il primo dente perché si sta diventando grandi! Però quando perdono i denti i grandi vuol dire che stanno diventando vecchi.
Negli ultimi giorni il dondolìo era aumentato.
- Sai papà, è emozionante sentire che si diventa grandi!
Cinque anni e tre mesi. E' caduto a scuola, la maestra il dentino glie l'ha messo in un sacchettino, ma Agata lo mostrava a tutti.
- Ecco, questo è il mio primo dentino, mi è caduto oggi mentre mangiavo, così lo vedi com'è è piccolo e bianco, poi me lo porto a casa perché stasera lo devo mettere sotto il cuscino...
Quattro Euro e quarantaquattro centesimi le hanno lasciato la fatina dei denti dei bambini col topolino e non so chi altri si occupi di risarcire o premiare la prima caduta. Quattro e quarantaquattro, così, solo per sentirglieli contare e chiedersi perché di questo strano numero e sentire di quanto si appesantiva il salvadanaio.
- Mammapapà, quanto vale il primo dente di un bambino?
- Dipende da quanto si trova in tasca il topolino e da quanto gli piace quel dentino.
- Quindi questo gli è piaciuto quattro e quarantaquatto volte...
L'ha messo in una scatolina e la mattina dopo l'ha voluto riportare a scuola.
- Devo farlo vedere alle mie amiche che sono diventata grande!
Così per due o tre giorni. Una sera però le ho regalato una scatolina araba, preziosa, in legno intarsiato, e mi seguiva Agata col suo piccolo scrigno per le scale, in terrazza, sui fiori, in casa, in bagno...
Non si sa dove si sia perso quel dentino, la scatola era dura da aprire e lui deve essere saltato fuori di lì. Era caduto tre giorni prima ma solo ora l'aveva perso.
- E se fosse lui che se ne è andato via? Forse aveva qualche cosa da fare, forse era curioso di vedere il mondo, dopo più di quattro anni passati dentro la mia bocca...
- Tu dove pensi che sia finito?
- Non lo so, ora che è primavera, nel giardino dei fiori gialli, o è volato fino alla spiaggia di Riccione, o a trovare i cavalli a Ranzano, a Kioni con le caprette, o forse è sotto al tappeto a ridere di noi che lo stiamo cercando dappertutto.
- Speriamo che sia volato via e non finisca nella pancia di un'aspirapovere.
- Sicuro che è finito in giardino, lui conosce la lingua dei fiori, parla un po' col glicine, coi tulipani selvatici, saluta le primule venute dai boschi di castagni poi tornerà quando diventerò mamma, a trovare i miei bambini quando perderanno il loro primo dentino.
Lui, il dente, dal suo nascondiglio, sta osservando un cuore con le trecce nere che parla con un cuore che sorride un po' distratto ma guarda dritto nel centro del foglio dove sorge un castello circondato da cuoricini, piccole mezzelune, farfalle, fiori con la bocca a forma di cuore, un arcobaleno che tutto colora come fosse un gioco, torri, piante, fiori, stelle, bambini curiosi allungati verso il margine del foglio, girandole variopinte che generano il vento e non lo subiscono, mani che mimano mani che si dipingono l'una sull'altra cuori catene fiori unghie viola (“il mio colore preferito!”).
lunedì 7 marzo 2011
8 marzo: un piccolo ideale menu
Aperitivo
con vino di dente di leone
è buono,
evoca sapori infantili, ricordate Dandelion Wine di Ray Bradbury?
Carciofi:
infiniti sono i modi per prepararli
Rileggetevi
“Oda a la alcachofa”, di Pablo Neruda
"La
alcachofa
de tierno
corazón
se vistió
de guerrero"...
Capperi a
profusione, sono boccioli, no? pensate assaporandoli che avrebbero potuto
sbocciarne fiori meravigliosi.
Insalata
di foglie e petali di fiori, su tutti i nasturzi, dalle foglie un po' piccanti,
reperibili sempre grazie alle serre, a
meno che non li coltiviate in giardino senza fertilizzanti.
Fiori di
zucca! ormai si trovano anche questi d'inverno, e non storcano il nasino le
puriste stagionali; anche qui, infinite le ricette, crudi in insalata, ripieni,
fritti... godeteveli pensando che da grandi avrebbero potuto essere trasformati
in carrozze...
Un
dessert? Fiordilatte al miele millefiori.
Per le più
inclini alle nostalgie, Madeleine à la Marcel Proust;
Rilassatevi
sgranocchiando violette candite e rileggendo, ad esempio,
Les Fleurs bleues, di Raymond Queneau:
"Le vingt-cinq septembre douze cent soixante-quatre, au petit jour, le
duc d'Auge se pointa sur le sommet du donjon de son château pour y considérer,
un tantinet soit peu, la situation historique. Elle était plutôt floue."
o
l'Odissea:
"Partiro
e s'affrontaro a quella gente,
Che, lunge
dal voler la vita loro,
Il dolce
loto a savorar lor porse.
Chïunque
l'esca dilettosa e nuova
Gustato
avea, con le novelle indietro
Non
bramava tornar: colà bramava
Starsi, e,
mangiando del soave loto,
La
contrada natìa sbandir dal petto."
Così,
obliando i piatti da lavare
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