Se
all’attore dionisiaco avessero vaticinato che, smaltita l’ebbrezza,
sarebbero seguiti secoli di fame e di vita grama come un malaugurio,
fra scomuniche delle autorità religiose e persecuzioni di quelle
civili, forse a tanto calvario avrebbe preferito il coma etilico, per
non riaversi più dalla sbronza. Fortuna che qualche nume deve averlo
convinto che solo “attraverso le difficoltà si diventa star”
(per aspera ad astra,
dicevano appunto gli
antichi) così il nostro, caricata la croce, si è incamminato verso
di noi, intraprendendo una plurisecolare carriera legata
indissolubilmente, così come la storia stessa del teatro, al
“doppio” spettrale del cibo e della tavola: la fame.
Alle
remote origine del teatro, nell’esaltazione dei riti dionisiaci,
l’attore, con sacralità sacerdotale, officiava la ricerca di un
contatto con la divinità. All’apice della civiltà greca
l’hypocritós
veniva tenuto in alta considerazione, con uno status di grande
privilegio, ma dopo quel periodo aureo inizia per lui una lunga
decadenza civile che lo vedrà schiavo, essere inferiore dedito a
un’attività abietta (i guitti venivano seppelliti in terra
sconsacrata, le attrici venivano considerate alla stregua delle
prostitute), sempre assillato dalla fame e dai disagi esistenziali di
un mestiere precario che, se in alcune fortunate occasioni poteva
godere degli avanzi delle tavole di corte, frequentemente ricadeva in
penurie quaresimali. Fino a tutto l’Ottocento, nei quaranta giorni
che seguivano il carnevale, interdetti alle rappresentazioni, le
compagnie si scioglievano e lo spettro della fame si ingigantiva
tanto che a esorcizzarlo ancor oggi sopravvive la superstizione che
bandisce il viola quaresimale in teatro.
Le
due più famose maschere della Commedia dell’Arte, Arlecchino e
Pulcinella, erano affratellate da un comune nemico, la fame, che
trovava rimedio solo in un’utopistica abbondanza, nell’apologia
virtuale dell’abbuffata, nel nutrirsi di iperboli, nello sberleffo,
almeno sul palcoscenico, a una cultura che a dispetto delle carestie
imperanti aveva voluto classificare la gola fra i sette peccati
capitali. La fame era così diffusa da superare come flagello la
peste, ma solo per quest’ultima era consentito inventarsi
l’esistenza di untori.
Gran
cantore di un mondo contadino che tra miseria e fame non riusciva a
sbarcare il lunario fu un drammaturgo veneto del Rinascimento, Angelo
Beolco detto Ruzante. Paradigmatica la sua commedia Bilòra,
il cui protagonista, alla
desolante vuotezza della dispensa deve affiancare quella del talamo,
abbandonato dalla consorte che gli ha preferito gli agi di un vecchio
cicisbeo veneziano.
All’epoca
della Commedia dell’Arte ogni luogo poteva divenire teatro. Le
rappresentazioni si svolgevano tanto all’aperto che al chiuso,
nelle fiere, nei palazzi nobiliari, nelle piazze dei mercati, nelle
arene destinate ai combattimenti fra animali, in taverne dove
l’avventore diventava spettatore e viceversa, realizzando momenti
di coinvolgimento conviviale come si ritrovano ormai solo nelle
culture teatrali orientali o del sud del mondo.
Nel
teatro elisabettiano il pubblico poteva assistere alla
rappresentazione delle opere di Shakespeare o di Ben Jonson mangiando
e conversando, cambiando di posto e intervenendo con commenti ad alta
voce sulla vicenda, il popolo in piedi e i nobili accomodati
direttamente sul palcoscenico. La lunghezza di certi testi, oggi
difficilmente e raramente riproponibili nella loro integralità, era
affrontabile allora perché la vita scorreva con ritmi notevolmente
più lenti ma anche grazie a condizioni di convivialità che
permettevano di alleggerire l’attenzione sulle parti di raccordo
delle rappresentazioni.
Cibo
e teatro, corteggiandosi a vicenda, si sono spesso occupati reciproci
spazi. Mentre ancora gli spettatori potevano mangiare nel corso
delle recite, lo spettacolo diveniva ospite d’onore nei banchetti
medievali di tutta Europa. Dapprima semplici esibizioni di arte
varia, con musici e saltimbanchi che intrattenevano i commensali fra
una portata e l’altra, questi inserti in Spagna vennero chiamati
entremés
e si affinarono in un vero e proprio genere di intermezzo fra gli
atti degli spettacoli teatrali, molto fiorente fino al XVIII secolo.
E’ curioso che del termine corrispettivo francese, entremets
(tramezzi,
li chiamò Artusi), si
sia riappropriata nell’Ottocento la gastronomia per designare quei
piatti che riempivano le pause fra una portata e l’altra, alla
faccia della fame e della gotta.
A
partire dal Cinquecento, e ancor più nel Seicento, il teatro inizia
a istituzionalizzarsi con la costruzione di luoghi deputati alla
rappresentazione degli spettacoli musicali e teatrali, dai quali il
cibo verrà escluso, cosicché lo spettatore, appagato lo spirito, il
ristoro del palato dovrà arrangiarselo altrove. Poi, scavalcando un
secolo e buttando all’aria troni e parrucche, privilegi e
convenzioni, irruppe sulla scena europea la Marsigliese con la sua
rivoluzione che finalmente restituì all’attore uno status civile,
abrogandone la presunzione di infamità, e involontariamente gettò
le basi per la nascita dei moderni ristoranti disoccupando e
costringendo ad affacciarsi al mercato gli chef i cui nobili padroni
venivano decollati.
In
Italia, oramai esclusa dal teatro “drammatico”, la vettovaglia si
ripresenta abbondante fra stucchi e velluti in occasione delle
rappresentazioni delle opere liriche che, per durata e conformazione,
potevano contemplare momenti di “calo d’attenzione”. Ma il cibo
si arrestava nei retropalchi che, essendo di proprietà di singoli o
di associazioni di privati, godevano di una completa “autonomia
territoriale”: cucine o alcove, secondo la bisogna. Ancora negli
anni cinquanta e sessanta, in alcuni teatri lirici emiliani,
approdavano nei retropalchi coppe, salami e culatelli, cotechini,
buşeca e cappelletti in brodo, i cui profumi si confondevano con le
“arie” e inebriavano gli animi con l’ausilio di adeguati
beveraggi, a celebrazione del palato in onore dell’ugola.
Attraverso
i secoli fame, cibo, cucina e tavola si ripresentano in palcoscenico
nei drammi e nelle commedie di alcuni autori fra i più
rappresentati, assumendo talvolta la valenza di dramatis
personæ, con il peso
drammaturgico di un vero personaggio.
Shakespeare, Molière, fino
a Goldoni che al suo Arlecchino fa dire: “Ho servido in tavola do
padroni e un non ha savudo de l’altro. Ma se ho servido per do,
adess voio andar a magnar per quattro”. E più vicino a noi
Pirandello, Brecht e financo Beckett con le rarefatte atmosfere e le
battute ultimative dei suoi personaggi:
Hamm
Non ti darò più niente da
mangiare.
Clov
Allora moriremo.
Eduardo
De Filippo, col suo amore profondo per la cucina borbonica
napoletana, si distingue per
la puntigliosità con cui prescrive che nelle sue commedie il caffè
o il ragù vengano preparati per davvero in scena, che il loro
profumo raggiunga gli spettatori, e così la tavola diviene
palcoscenico della vita quotidiana. Pensiamo a Questi
fantasmi, Natale in casa Cupiello, Sabato,domenica e lunedì, Napoli
milionaria, Filomena Maturano, dove
intorno alla tavola sono
alla fine sempre i sentimenti buoni, quelli piccolo borghesi, a
trionfare.
Si
completa dunque, nella provvisorietà dello scorso secolo, la
parabola che porta il teatro e l’attore a riscattarsi dalla fame
predisponendoli finalmente al salto dall’indigenza congenita alla
soddisfazione dell’appetito, all’evoluzione di quest’ultimo
nella sua forma subliminale, la golosità come rivalsa sulla fame, e
in alcuni casi alla sua degenerazione in ingordigia, favorendo la
diffusione di tanti luoghi comuni sulla propensione per la buona
tavola di tanti attori che interpretano le tournée dei propri
spettacoli come tappe da un ristorante all’altro.
Infine,
nell’era dell’abbondanza e degli eccessi, con un improbabile
scambio di ruoli, nascono attori che si divertono a fare i cuochi e
chef che si credono attori.
Ma
qui principia tutt’un'altra commedia.
(Dall'introduzione
di un mio libro del '94, con qualche piccolo ritocco).