giovedì 6 ottobre 2011

A tavola sul palcoscenico


Se all’attore dionisiaco avessero vaticinato che, smaltita l’ebbrezza, sarebbero seguiti secoli di fame e di vita grama come un malaugurio, fra scomuniche delle autorità religiose e persecuzioni di quelle civili, forse a tanto calvario avrebbe preferito il coma etilico, per non riaversi più dalla sbronza. Fortuna che qualche nume deve averlo convinto che solo “attraverso le difficoltà si diventa star” (per aspera ad astra, dicevano appunto gli antichi) così il nostro, caricata la croce, si è incamminato verso di noi, intraprendendo una plurisecolare carriera legata indissolubilmente, così come la storia stessa del teatro, al “doppio” spettrale del cibo e della tavola: la fame.
Alle remote origine del teatro, nell’esaltazione dei riti dionisiaci, l’attore, con sacralità sacerdotale, officiava la ricerca di un contatto con la divinità. All’apice della civiltà greca l’hypocritós veniva tenuto in alta considerazione, con uno status di grande privilegio, ma dopo quel periodo aureo inizia per lui una lunga decadenza civile che lo vedrà schiavo, essere inferiore dedito a un’attività abietta (i guitti venivano seppelliti in terra sconsacrata, le attrici venivano considerate alla stregua delle prostitute), sempre assillato dalla fame e dai disagi esistenziali di un mestiere precario che, se in alcune fortunate occasioni poteva godere degli avanzi delle tavole di corte, frequentemente ricadeva in penurie quaresimali. Fino a tutto l’Ottocento, nei quaranta giorni che seguivano il carnevale, interdetti alle rappresentazioni, le compagnie si scioglievano e lo spettro della fame si ingigantiva tanto che a esorcizzarlo ancor oggi sopravvive la superstizione che bandisce il viola quaresimale in teatro.
Le due più famose maschere della Commedia dell’Arte, Arlecchino e Pulcinella, erano affratellate da un comune nemico, la fame, che trovava rimedio solo in un’utopistica abbondanza, nell’apologia virtuale dell’abbuffata, nel nutrirsi di iperboli, nello sberleffo, almeno sul palcoscenico, a una cultura che a dispetto delle carestie imperanti aveva voluto classificare la gola fra i sette peccati capitali. La fame era così diffusa da superare come flagello la peste, ma solo per quest’ultima era consentito inventarsi l’esistenza di untori.
Gran cantore di un mondo contadino che tra miseria e fame non riusciva a sbarcare il lunario fu un drammaturgo veneto del Rinascimento, Angelo Beolco detto Ruzante. Paradigmatica la sua commedia Bilòra, il cui protagonista, alla desolante vuotezza della dispensa deve affiancare quella del talamo, abbandonato dalla consorte che gli ha preferito gli agi di un vecchio cicisbeo veneziano.
All’epoca della Commedia dell’Arte ogni luogo poteva divenire teatro. Le rappresentazioni si svolgevano tanto all’aperto che al chiuso, nelle fiere, nei palazzi nobiliari, nelle piazze dei mercati, nelle arene destinate ai combattimenti fra animali, in taverne dove l’avventore diventava spettatore e viceversa, realizzando momenti di coinvolgimento conviviale come si ritrovano ormai solo nelle culture teatrali orientali o del sud del mondo.
Nel teatro elisabettiano il pubblico poteva assistere alla rappresentazione delle opere di Shakespeare o di Ben Jonson mangiando e conversando, cambiando di posto e intervenendo con commenti ad alta voce sulla vicenda, il popolo in piedi e i nobili accomodati direttamente sul palcoscenico. La lunghezza di certi testi, oggi difficilmente e raramente riproponibili nella loro integralità, era affrontabile allora perché la vita scorreva con ritmi notevolmente più lenti ma anche grazie a condizioni di convivialità che permettevano di alleggerire l’attenzione sulle parti di raccordo delle rappresentazioni.
Cibo e teatro, corteggiandosi a vicenda, si sono spesso occupati reciproci spazi. Mentre ancora gli spettatori potevano mangiare nel corso delle recite, lo spettacolo diveniva ospite d’onore nei banchetti medievali di tutta Europa. Dapprima semplici esibizioni di arte varia, con musici e saltimbanchi che intrattenevano i commensali fra una portata e l’altra, questi inserti in Spagna vennero chiamati entremés e si affinarono in un vero e proprio genere di intermezzo fra gli atti degli spettacoli teatrali, molto fiorente fino al XVIII secolo. E’ curioso che del termine corrispettivo francese, entremets (tramezzi, li chiamò Artusi), si sia riappropriata nell’Ottocento la gastronomia per designare quei piatti che riempivano le pause fra una portata e l’altra, alla faccia della fame e della gotta.
A partire dal Cinquecento, e ancor più nel Seicento, il teatro inizia a istituzionalizzarsi con la costruzione di luoghi deputati alla rappresentazione degli spettacoli musicali e teatrali, dai quali il cibo verrà escluso, cosicché lo spettatore, appagato lo spirito, il ristoro del palato dovrà arrangiarselo altrove. Poi, scavalcando un secolo e buttando all’aria troni e parrucche, privilegi e convenzioni, irruppe sulla scena europea la Marsigliese con la sua rivoluzione che finalmente restituì all’attore uno status civile, abrogandone la presunzione di infamità, e involontariamente gettò le basi per la nascita dei moderni ristoranti disoccupando e costringendo ad affacciarsi al mercato gli chef i cui nobili padroni venivano decollati.
In Italia, oramai esclusa dal teatro “drammatico”, la vettovaglia si ripresenta abbondante fra stucchi e velluti in occasione delle rappresentazioni delle opere liriche che, per durata e conformazione, potevano contemplare momenti di “calo d’attenzione”. Ma il cibo si arrestava nei retropalchi che, essendo di proprietà di singoli o di associazioni di privati, godevano di una completa “autonomia territoriale”: cucine o alcove, secondo la bisogna. Ancora negli anni cinquanta e sessanta, in alcuni teatri lirici emiliani, approdavano nei retropalchi coppe, salami e culatelli, cotechini, buşeca e cappelletti in brodo, i cui profumi si confondevano con le “arie” e inebriavano gli animi con l’ausilio di adeguati beveraggi, a celebrazione del palato in onore dell’ugola.
Attraverso i secoli fame, cibo, cucina e tavola si ripresentano in palcoscenico nei drammi e nelle commedie di alcuni autori fra i più rappresentati, assumendo talvolta la valenza di dramatis personæ, con il peso drammaturgico di un vero personaggio. Shakespeare, Molière, fino a Goldoni che al suo Arlecchino fa dire: “Ho servido in tavola do padroni e un non ha savudo de l’altro. Ma se ho servido per do, adess voio andar a magnar per quattro”. E più vicino a noi Pirandello, Brecht e financo Beckett con le rarefatte atmosfere e le battute ultimative dei suoi personaggi:
Hamm Non ti darò più niente da mangiare.
Clov Allora moriremo.
Eduardo De Filippo, col suo amore profondo per la cucina borbonica napoletana, si distingue per la puntigliosità con cui prescrive che nelle sue commedie il caffè o il ragù vengano preparati per davvero in scena, che il loro profumo raggiunga gli spettatori, e così la tavola diviene palcoscenico della vita quotidiana. Pensiamo a Questi fantasmi, Natale in casa Cupiello, Sabato,domenica e lunedì, Napoli milionaria, Filomena Maturano, dove intorno alla tavola sono alla fine sempre i sentimenti buoni, quelli piccolo borghesi, a trionfare.
Si completa dunque, nella provvisorietà dello scorso secolo, la parabola che porta il teatro e l’attore a riscattarsi dalla fame predisponendoli finalmente al salto dall’indigenza congenita alla soddisfazione dell’appetito, all’evoluzione di quest’ultimo nella sua forma subliminale, la golosità come rivalsa sulla fame, e in alcuni casi alla sua degenerazione in ingordigia, favorendo la diffusione di tanti luoghi comuni sulla propensione per la buona tavola di tanti attori che interpretano le tournée dei propri spettacoli come tappe da un ristorante all’altro.
Infine, nell’era dell’abbondanza e degli eccessi, con un improbabile scambio di ruoli, nascono attori che si divertono a fare i cuochi e chef che si credono attori.
Ma qui principia tutt’un'altra commedia.
(Dall'introduzione di un mio libro del '94, con qualche piccolo ritocco).