mercoledì 9 febbraio 2011

Lo scrigno delle Turmàc

Macedonia, Serraglio, Giubek con filtro,... la moglie dell'ingegner Diggiórgio preferiva le Turmàc, come le chiamava lei facendole emergere con mossa sensuale, come per magìa, tutte e venticinque, dal portasigarette sul tavolino nel salotto rococò, un cilindro magico "Sol Levante" che tutte le amiche le invidiavano. Il bel pacchetto originale era involto da una carta decorata con arabeschi in stile "Africa Orientale". La scritta Turmac evocava i caratteri inventati di un alfabeto “alla turca” e l'acronimo rimandava alla miscela di tabacchi turco e macedone. Ma farle apparire a raggiera, imprigionate una ad una in piccole morse d'ottone, assumeva un ché di peccaminoso e moderno... come mostrare l'attaccatura delle giarrettiere alle calze di seta color carne. Solo questa marca di sigarette aveva in comune l'annoiata signora del Vomero con Sua Altezza Imperiale Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, ma anche Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano Impero, Esarca di Ravenna, nonché Principe di Costantinopoli e Duca, Conte e Conte Duca di un numero immenso di territori tra i Balcani e la Grecia. In arte Totò. Totò ne fumava quattro pacchetti al giorno e fra l'uno e l'altro dei quindici caffè che si beveva tra l'alba e il tramonto, su un pacchetto di Turmac scrisse di getto le parole di Malafemmena.
Si avisse fatto a n’ato
chello ch’e fatto a mme
c’ommo t’avesse acciso,
tu vuò sape pecchè? 
Pecchè ‘ncopp’a sta terra
femmene comme a te
nun ce hanna sta pe’n’ommo
onesto comme a me !...
Per lungo tempo si è associata questa canzone al nome di Silvana Pampanini, di cui Antonio de Curtis si era invaghito sul set di “47 morto che parla”.
Femmena,
tu si na malafemmena...
Chist’uocchie ‘e fatto chiagnere...
Lacreme e ‘nfamità.
Correva l'anno 1950 quando Totò manifestò la sua passione alla maggiorata e si sentì rispondere "Anch'io ti voglio bene, come se fossi mio padre". Il Principe (così si faceva chiamare dalle maestranze sul set) sostenne sempre di averla dedicata a Diana Bandini Rogliani, la moglie che visse con lui dal 1931 al 1951, nell'anno della loro separazione.
Femmena
Si tu peggio ‘e na vipera,
m’e ‘ntussecata l’anema,
nun pozzo cchiù campà.
Primo interprete della canzone fu Giacomo Rondinella,  accompagnato dall’Orchestra di Gorni Kramer, al Teatro Quirino di Roma nel 1951. A lui Totò aveva accennato sul nascere parole e melodia del brano ricevendone preziosi consigli...
Femmena,
si ddoce comme ‘o zucchero
però sta faccia d’angelo
te serve pe ‘ngannà..
Malafemmena fu anche la prima canzone di Totò ad essere incisa su disco a 78 giri dalla Fonit, con l’interpretazione dello stesso Rondinella affiancato dall’Orchestra del Maestro Sciorilli. 
Femmena
tu si’a cchiù bella femmena
te voglio bene e t’odio
nun te pozzo scurdà...
Te voglio ancora bene
ma tu nun saie pecchè 
pecchè l’unico ammore
si stata tu pe me...
E tu pe nu capriccio
tutto’e distrutto, ojnè
Ma Dio nun t’o perdone
chello ch’e fatto a mme!

Da allora questa canzone perseguitò Totò ad ogni sua apparizione in ristoranti e locali con musicisti dal vivo.
Femmena,
tu si na malafemmena...



venerdì 4 febbraio 2011

La Leika “Rossa”

La fotografia moderna nasce col sistema Leica 35mm che di colpo rese arcaici gli ingombranti apparecchi fotografici in uso fino ad allora. Si deve al genio meccanico di Oskar Barnack l'invenzione della piccola e maneggevole fotocamera a 35 mm che rivoluzionò il mondo della fotografia aprendo a impensati sviluppi sul piano professionale, favorendo la nascita della professione di fotoreporter così come la intendiamo ancor oggi, e su quello familiare. Affermatosi l'originale, subito nacquero le copie e i primi contraffattori furono sovietici e polacchi. Anche così, con la visiera volta al sol de l'avvenir, il Soviet la metteva in quel posto all'occidente capitalista il cui imminente tramonto assiduamente celebrava al grido di “Zdorov'e!”, nell'ebbrezza di conseguire gli obiettivi di consumo di vodka luminosamente tracciati dai piani quinquennali della Nep. Vodka, grano e carbone erano le prime fra le materie prime sovietiche: del carbone se n'occupava ufficialmente Aleksej Grigor'evič Stachanov, il grano lo mietevano i kolchoziani (prima di essere mietuti pure loro dalla grande falce), il popolo remigava sulla vodka. Il fenomeno delle copie Leica è iniziato negli anni Trenta, utilizzando come base le macchine sovietiche FED e Zorkj. Le patacche bolsceviche sono state sempre considerate le prime fotocamere replica della creatura di Barnack, apparecchi che hanno utilizzato di solito come prototipo la Leica II, copiandola in modo spudorato, strafottendosene di ogni tutela dei brevetti Leitz, arrivando a incidere a fianco del marchio Leica fregi militari nazisti (Luftwaffe, etc.) con l'unico scopo di truffare ingenui compratori, collezionisti sprovveduti che rincorrevano il colpo grosso acquistando apparecchi senza storia dalle improbabili livree in pelle azzurra, dai riflessi ottonati o nerobruniti, marchiati da croci uncinate o da coppie di “s” minacciosamente spigolose.

Il Lavabottiglie di Duchamp

Già nel 1913 ebbi la felice idea di montare una ruota di bicicletta su uno sgabello di cucina e di osservarla mentre girava. Decisamente si trattava di un’opera d’arte! A New York, nel 1915, comprai in un negozio di ferramenta una pala per spalare la neve sulla quale scrissi In advance of a broken arm. Circa in quell’epoca mi venne in mente la parola ready-made per definire questo genere di lavori”Così ebbe a dichiarare in seguito Marcel Duchamp mentre teorici dell’arte e estetologi s’arruffarono non poco i capelli nei decenni che seguirono alla ricerca di contenuti nelle sue opere che giustificassero il loro filosofare. Conoscendo personalmente Duchamp e la sua alchemica predisposizione alla provocazione, posso assicurare che avrebbero potuto spendere molte meno parole per cercare di etichettarlo! Si pensi ad esempio all’urinatoio capovolto che l’artista intitolerà Fountain, nient’altro che un'opera d'arte ludica ed ironica, ma molti critici sostengono che simboleggerebbe l'utero femminile e non a caso Duchamp l'avrebbe firmata con lo pseudonimo R. Mutt, pretesa traslitterazione evocativa del sostantivo tedesco "mutter", che significa "madre", mentre la realtà più banalmente rimandava a un produttore di sanitari... I ready-mades misero in scacco matto le categorie dell’arte con la mossa del ridicolo nella quale il pensiero artistico entrava in competizione con la velocità del gesto (Marcel Duchamp e Man Ray, sodali nell’arte e amici nella vita, avevano sempre urgenza di ritornare ad occupazioni di rito epicureo). Erano gli anni della grande esplosione creativa della "Ville Lumière". Duchamp, se non era alla Coupole a giocare a scacchi per vincere, bazzicava con Man Ray bistrot, brasserie e locali notturni di Montparnasse. Il primo lasciava in sospeso le sue partite giocate anche su scacchiere multiple, il secondo abbandonava per ore gli esperimenti sui rayogrammes nel suo studio fotografico (forse sono le impressioni fotografiche che gli sono venute meglio, aiutate dall’azzardo del caso). Alla sua prima apparizione sul palco sghembo del Jockey tutti e due misero gli occhi su Kiki de Montparnasse e con loro tutti i clienti del locale notturno, quelli in stato di coscienza, di semi incoscienza o ebbrezza profonda. Ma l'americano, più veloce d'azione che di pensiero rispetto a Duchamp, forse perché privo di retaggi classici, l'impalmò in anticipo proponendole di posare per un suo fotoritratto. Una esemplificazione della sua rivoluzionaria visione della fotografia avvenne di lì a poco nella camera di un alberghetto a fianco, partendo con l'approfondire la conoscenza del soggetto da mettere in posa. Fu così che Kiki divenne la musa ispiratrice di Man Ray e lui la dipinse e ritrasse in numerose celebri e "scandalose" foto per l'epoca, come Le violon d’Ingres. Duchamp si indispettì non poco per quella che considerava una sconfitta quasi grave come agli scacchi e ritenne di doversi vendicare del locale svitando col nettapipe le viti che reggevano un tire-buchon a manovella fissato alla parete di legno nei pressi del bancone. Come biasimarlo, si trattava in effetti di un manufatto a cremagliera di notevole fattura, impreziosito dalle casuali sbecchettature che la vernice nera mostrava per l’uso. L’oggetto, come vedremo in seguito, andò ad arricchire una particolare serie di ready-made. Nei venti anni successivi, sempre vissuti a Montparnasse, Man Ray divenne uno dei maggiori esponenti del Dadaismo e rivoluzionò l'arte fotografica. Grandi artisti dell'epoca come Gertrude Stein, James Joyce e lo stesso Duchamp, posarono per lui. Nel frattempo Kiki continuava a esibirsi al Jockey, dove ballava il can-can cantando canzoni scollacciate. Ubriaca o drogata si scordava le parole, allora risollevava l’interesse della platea saltando su un tavolo e mettendosi a gambe all’aria: Kiki non aveva mai indossato culottes e vi assicuro che era uno spettacolo di quelli che non si possono scordare. Man Ray ne era gelosissimo, finiva per picchiarla davanti a tutti, e Kiki rinforzava lo show tirandogli calci e ogni oggetto che le venisse a portata di mano, posacene ricolmi, bicchieri, piatti sporchi... Ne sono stato testimone parecchie volte, già collezionavo le opere di Man Ray e Duchamp e frequentavamo gli stessi locali (dove spesso era l’unico modo per ritrovarli). E’ questa mia conoscenza personale che mi permette ora di rivelare l’esistenza di opere diciamo pure segrete di Marcel. Il primo ready-made puro è "Bottle Rack" ("Lo scolabottiglie"), e questa è cosa arcinota. Comprato per pochi franchi nel bazar dell’Hôtel de Ville a Parigi, venne semplicemente firmato da Duchamp. Nel 1915, mentre lui era negli Stati Uniti, sua sorella decise una "pulizia generale" dello studio dell’artista, stanca di tutto quel ciarpame, così l’originale dello Scolabottiglie fu banalmente gettato nella poubelle. Duchamp al suo ritorno non solo non si irritò con la sorella, ma vide in quel gesto una conferma delle sue teorizzazioni: arte è ciò che l’artista elegge a essere tale, e lo scolabottiglie nella sua prima vita non era altro che un prodotto industriale, quindi lo sostituì poi con altro esemplare identico rifirmandolo. Quella che è nota solo a me (e all’artista ovviamente, che però nel contempo purtroppo ci ha lasciati con l’epitaffio “D’altronde sono sempre gli altri a morire!”) è l’esistenza di un ciclo di ready made in quattro opere ispirate dal magico mondo del vino:
The bottle-washer, sottotitolato “Water Flows in the Veins of Art”, capolavoro di cinetismo idraulico, manovellismi e leveraggi, una scultura che dice “Non c’è sangue nelle vene dell’arte!”;
The corking machine, questo il titolo che Duchamp attribui a quest’opera dopo averla portata a New York, l’originale era Bouche-Bouteilles (ma affettuosamente la chiamava Boucheuse). Duchamp, affascinato dalla monumentalità dell’attrezzo, convinse un vecchio vigneron bordolese a cedergliela per un chilo di foie-gras trouffée del Périgord, specialità che il villico evoluto mostrava di apprezzare voluttuosamente. Investimento ben ponderato, visti i valori di mercato che i ready made avrebbero assunto da lì a un po’. Se lo scolabottiglie dice “L’arte è ferraglia”, l’urinoir, insomma il pisciatoio capovolto, dice “L’arte è un imbroglio”, il turabottiglie di Duchamp afferma irrevocabilmente “L’art est buchonnée!”; completava il ciclo The bottle-opener (corkscrew, scrisse qualche spiccio e moderno cronista all’epoca) che liberava l’arte dal maleficio del gusto di tappo, che le precludeva ogni respiro più ampio.
Si tratta di quattro opere magistrali in cui il genio alchemico di Duchamp, grazie al gesto rapinoso di un pensiero capace di trasformare il nihil in opus, raggiunge la sommità della sua produzione artistica e dell’elaborazione concettuale.
Il bottle-opener andò smarrito in uno dei trasferimenti transoceanici dell’artista (un cameriere di cabina l’aveva imprudentemente mostrato a un maître e...), Il Lavabottiglie tutt’ora appartiene alla mia collezione mentre sul turabottiglie e sui suoi trasformismi nominali (Corking Machine, Bouche-Bouteilles o Boucheuse) ho esercitato l’arbitrio di ripercorrere a ritroso il processo creativo del Maestro, tirandolo giù dal piedistallo imbalsamatorio dei musei. Insomma ho invertito il senso del gesto del mio stimato e compianto amico Marcel per riportare alla vita, quella vera, il ready made-turabottiglie. L’ho sbattezzato insomma, tirandolo giù in cantina dall’Olimpo dell’arte. Era un Duchamp, il Turabottiglie di Duchamp, e io mi sono preso il gusto di restituirlo alle sue funzione originarie consegnandolo al mio cantiniere che, inconsapevole di manovrare un capitale, ha parecchio apprezzato il macchinario che, mi dice, ha sensibilmente migliorato le sue prestazioni imbottigliatorie riducendogli la soglia di affaticamento, quantunque un metro di misurazione di quest'ultima non sia facilmente adottabile poiché il suo stato psicofisico è costantemente determinato dalla copiosa quantità della mia produzione vitivinicola che transita attraverso il suo gargarozzo.  
Oggi, ormai raggiunta l’età in cui anche gli edifici si sgretolano, io svaporerò nel nulla e di me resterà una collezione d’arte, sparsa tra le sale del mio Château, il cui principale capolavoro è appunto “Il lavabottiglie” di Marcel Duchamp. Ma la mia opera somma, quella che nessuno scoprirà mai, è Il Turabottiglie di Duchamp, la cui parabola sublime è passata attraverso un gesto del pensiero artistico del Maestro e poi al mio gesto che ha riportato l’”opera” alle sue funzioni primarie in affidamento al mio cantiniere nelle cui mani inconsapevoli e callose, se mi sopravviverà, rimarrà.
Epigonius van Dosiris
Accademico della Filanca, fiammingo per sorte, apolide per elezione, agnostico per devozione, giramondo e artista nell’arte di collezionare vacuità