domenica 19 giugno 2011

La carrucola rapita

Vorrei cantar quel memorando sdegno
ch'infiammò già ne' fieri petti umani
un'infelice e vil Secchia di legno
che tolsero a i Petroni i Gemignani.

Rimpastando date e fatti storici il secentesco Nobil Homo Alessandro Tassoni, poeta modenese, nell'ultima parte della sua vita si mise a tirare su la stramba impalcatura della Secchia Rapita, poema eroicomico in ottava rima che qualche fama gli avrebbe reso alla posterità.
Dopo una giovinezza dissoluta, completati gli studi, il nostro si mise al servizio di duchi e cardinali coltivando la passione per il campo letterario, dove poteva esprimere la sua personalità vivace e iraconda, carica di corrosiva vena polemica anti-aristotelica, riparando sovente sotto le tutele di un avveduto anonimato. La propensione alla prudenza dell'autore risalta dalla lunga gestazione editoriale del poema, la cui prima stesura è del 1614 ma vide le stampe a Parigi solo nel 1621. Per superare poi le fitte maglie della Congregazione dell'Indice dei Libri Proibiti della Chiesa Cattolica, Tassoni ne fece stampare nel 1624 una copia unica particolarmente purgata per il Papa Urbano VIII (quel Maffeo Barberini che per altri versi non fu certo un faro di virtù, praticando il nepotismo su vasta scala). Ma la versione definitiva fu stampata a Venezia nel 1630.
Il desiderio di nuovo del poeta diplomatico, unito alla ricerca di paradossali bizzarrie, lo convinse a ricombinare liberamente avvenimenti reali con storie immaginarie per ricavarne divertimento e stupore per il lettore e per sé stesso. Così, ispirandosi a un fatto d'armi noto come “la battaglia di Fossalta”, accaduto nel 1249 fra le armate dei Bolognesi e dei Modenesi, nelle sue pagine fece irrompere i primi nei domini di Modena per essere tosto respinti e inseguiti fino alle porte di Bologna dove – a suo dire - la soldataglia ducale, sostando a un pozzo per abbeverarsi, decise di portarsi via come goliardico trofeo una vecchia secchia di legno. I Bolognesi la presero di punta, sempre secondo il poeta, e s'imbufalirono non poco di fronte al rifiuto di riconsegnare la secchia, così che dichiararono guerra a Modena! Parrebbe che il furto della secchia, se in realtà è avvenuto, sia databile secoli dopo i conflitti tra le due città, ma al nostro tornava comodo attribuire al fatto la causa della guerra, magari per insinuare, sia pur velatamente, quanto basse siano le cose umane e quanta stoltezza possa ingenerare sanguinari conflitti. Poi, per potere infilare nella storia arguti riferimenti alla sua contemporaneità e giudizi polemici di carattere personale, vivacizzò il poema soffiando altre polveri sul campo di battaglia, facendo partecipare alla guerra gli dei dell'Olimpo, ripartiti nei due campi avversi, personaggi storici come il figliastro dell'Imperatore Federico II (quel Re Enzo di Sardegna che finì la sua carriera in riguardosa prigionia dei Bolognesi) e figure immaginarie come la bella amazzone Renoppia, che nella pugna comandava una schiera di donne guerriere mentre la notte teneva su il morale delle truppe cornificando a multipli il donchisciottesco consorte, il Conte di Culagna:
un cavalier bravo e galante,
filosofo poeta e bacchettone
ch'era fuor de' perigli un Sacripante,
ma ne' perigli un pezzo di polmone.
Spesso ammazzato avea qualche gigante,
e si scopriva poi ch'era un cappone...
In realtà, i mercenari modenesi, eccitati dal sangue, dal clangore della battaglia vinta e pure ebbri di lambrusco per le conseguenti libagioni, si provarono dapprima ad asportare la vera di quel pozzo presso il quale s'erano apprestati per lavare la ferraglia. Ma l'immane anello in pietra, tradotto in loco dalle cave appenniniche con otto pariglie di buoi da aratro, aveva ben resistito nella sua fissità. Così, desistendo da ulteriori sforzi, orientarono le loro oltraggiose attenzioni dapprima verso la vile secchia di legno, usandola a guisa di bugliolo, per asportare infine la corposa carrucola di cui fecero dono al loro capitano, a ornamento degno del suo alto arcione. La secchia, originale o copia poco importa, è ancor oggi esposta a mo' di beffardo trofeo nella modenese torre della Ghirlandina. Ma ciò che fece veramente andare in bestia i Felsinei fu la perdita di quella carrucola, robusta forgiatura in ferro con un anello da carichi pesanti ma ingentilita da un rocchetto in ottone fuso a cera persa, irripetibile manufatto perché – ad aggravare l'onta – gli armigeri Gemignani arruolarono involontario nelle proprie armi il fabbro ferraio che dalla bergamasca era venuto a terminare la propria stirpe proprio nel Bolognese. Così, poiché gli umani amano ripetersi, specie nelle proprie stupidità, furono ancora guerre e sangue e la carrucola cambiò di mano e di ducato, di pozzo in pozzo, di castello in torrazzo, nobilitata e poi svilita a tirar su sacchi di granaglie, sassi di fiume e vasche di calcina per finire irriconoscibile oramai, incrostata dagli ossidi del tempo, nella catasta indistinta di un raccoglitore di ferraglia dal quale parecchie idee io ho attinto.

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