lunedì 7 marzo 2011

Maletería Arequipeña


Quante settimane in piroscafo da Livorno a Lima, a mangiare zuppa di patate. A noi passeggeri di terza classe ci faceva compagnia il rumore delle macchine nelle cabine collettive, pulsavano come un cuore ossessivo e l'odore di nafta e di olio bruciato erano l'odore del viaggio. Il vento riportava dagli oblò le musiche del salone di prima classe. Mai più terza classe! mi dicevo. All'attracco al Callao, fra il rumore di ferraglia e le grida dei marinai, con l'apertura dei boccaporti ci hanno dato il benvenuto i profumi sconosciuti del vicino Mercado, coi suoi banchi colorati. Noi dalla pancia calda della nave ci hanno spinto giù lungo una passerella lorda di gasolio, dall'alto del ponte di prima classe scendevano lentamente coppie di passeggeri in abiti di lino, cappelli di Panama, ombrellini di trine e scarpe in corame fatte a mano. Il bagaglio glie l'avrebbe portato la servitù. Io nel mio valigione in fibra di cartone, tenuto insieme da un intreccio di corde di canapa, ci avevo messo dentro tutto il mio mondo, un mondo di miseria che non avrei più voluto rivedere, una povertà pesante che mi faceva claudicare. Il valigione, confesso, pesava tremendamente non per i quattro stracci che avevo messo insieme ma per quello che mutandoni, maglioni e braghe avvolgevano per proteggerli: otto mortai in marmo di Carrara (qualche ligure nostalgico del pesto alla genovese l'avrei trovato sicuramente!). Mai più valigie di cartone mi dicevo, bisognava tenerselo a mente! E ci ha pensato il mio corpo a evitare che il tempo potesse dilavare la memoria, conservando nella mia spalla destra un tic che la fa sobbalzare come a negarsi ogni volta che devo sollevare un peso. Quelli li aspettavano vetture da noleggio, noi ci hanno spidocchiato in un magazzino del porto, poi a piedi ognuno per la sua strada, a risalire verso Lima per poi disperderci nei tanti climi del Perù.

Io cominciai a viaggiare verso sud, non so neanche perché presi quella direzione. A mille chilometri da Lima, risalendo fino a 2.400 metri, arrivai in una città bianca che mi ricordava il mio paese ricoperto di polvere di marmo. Passeggiavo trascinando il mio bagaglio quando mi fermai, stavolta non per prendere fiato. Rimasi incantato a osservare un ragazzino sulla soglia di una pastelería: con un cucchiaio rimestava lentamente in tondo della crema sul fondo di un catino in alluminio, il catino poggiava su una mastella in legno bassa e ricolma di ghiacchio tritato misto a sale grosso. L'improvvisato marchingegno stava in equilibrio precario su uno sgabello. In soli venti minuti la crema si solidificò in un meraviglioso gelato che riuscii ad assaggiare solo perché ero il primo di una coda che non m'ero accorto che si era andava formando dietro di me (il rito, evidentemente, doveva avere un orario e dei clienti affezionati). Ecco, mi dissi, se ci puoi fare un gelato con un cucchiaio e un catino e venderlo tutto in pochi minuti, allora questa potrebbe essere la mia città. Villa de la Asunción de Nuestra Señora del Valle Hermoso de Arequipa, la battezzò così Manuel de Carbajal. “El 15 de agosto de 1540 Juan de la Torre y Díaz Chacón con la colaboración del muy magnífico señor teniente de gobernador Garcí Manuel de Carbajal, capitan por el ilustre señor Marqués Don Francisco Pizarro governador en estas provincias por su magestad, quien había escogido previamente el sitio adecuado para asentar el poblado, más conveniente e sano e de menos perjuicio de los naturales”. “Majestuosa ciudad blanca, de eterna primavera”, sovrastata dal grande vulcano El Misti, ma gli spagnoli con i loro spadoni in forma di croce, gli archibugi e gli altissimi quadrupedi che emettevano convulse risate erano venuti a scoprire con la forza quello che altri avevano scoperto con la dolcezza della fatica. Ci arrivarono ben prima i sudditi dell'Inca Mayta Cápac quando, meravigliati dalla bellezza della valle del Chili, gli chiesero il permesso di fermarsi e costruirvi una città. Egli rispose "Ari qhipay", che in lingua quechua significa “Si, fermatevi qui”. Forse però prima ancora vi si stabilirono gli indigeni Aymara per i quali "Ari qhipaya” significava “Al di là della vetta” del vulcano Misti.
Anch'io mi fermai lì e cominciai a lavorare senza contare il tempo che passava, mirando a quello che sarebbe arrivato. Riuscii a comprare un piccolo laboratorio di valigeria sotto i portici in bianco sillar nella Plaza de Armas, proprio di fronte alla Catedral, fra negozietti e picanterías che spandevano nell'aria profumi di chupe de camarones, ceviche, chicharrones, cauchi de queso, ocopa, zarza de patas, cuy chactado, e chicha de jora, alternati al fritto dei chifas, discendenti dei cinesi anticamente tradotti in schiavitù in Perù. Lì fondai la “Manufactura Peruana SA, P. D. P. Arequipa”. P.D.P. stava per Pedro de Paoli, cominciavo ad abbandonare pubblicamente la lingua di mia madre, la lingua dei ricordi ma anche quella dei mestieri umili, della miseria, della fame coi suoi pochi sapori coperti dall'odore di polvere di marmo. Finii per parlare in italiano solo di notte, nei sogni o nelle mie lunghe veglie. Le mie valigie in cuoio divennero le migliori del paese, si esportavano in Chile come articoli di lusso, ma anche in Venezuela e perfino in Argentina, dove gli sbrigativi coramari bonaerensi non riuscivano ad eguagliare l'accuratezza delle mie creazioni.
Presi a viaggiare, a Lima mi ci conduceva il mio chauffeur su una enorme Cord Saloon, un carro norteamericano con il cruscotto cesellato in argento; l'oceano lo riattraversavo in prima classe sui transatlantici della French Line, un viaggio in terza mi era bastato.
A Lima ci andavo per affari almeno quattro volte l'anno, prendevo alloggio in una suite del Country Club, lujoso Hotel Patrimonio Cultural del Perú por su elegancia arquitectónica finamente decorada con obras de arte del Museo Pedro de Osma, nel distretto residenziale e finanziario di Lima, residenza di grandi personalità, presidenti e ambasciatori, principesse e artisti, con l'esclusivo Lima Golf Club a 18 buche.
Ogni anno attraversavo l'Atlantico per trascorrere due settimane in Italia. Non sono mai più tornato nel mio paese natale, lo pensavo sepolto dalla polvere di marmo... Mi ero innamorato del Lago di Como, col suo clima mite e temperato tutto l'anno, mi aveva incantato il promontorio che lo separa in due rami, lì dove sorge maestoso il Grand Hotel Villa Serbelloni, a Bellagio. Per oltre un secolo, nelle gigantesche specchiere liberty della monumentale salle à manger si sono specchiati illustri ospiti in cerca di una lussuosa oasi di tranquillità: i sovrani di Spagna, di Romania, Albania e Egitto, alta nobiltà, soprattutto russa e inglese, e poi statisti, Sir Winston Churchill, F. D. Roosevel,t J.F. Kennedy, grandi attori come Clark Gable e Douglas Fairbanks, magnati della finanza internazionale. I Rothschild, me li ricordo ancora, si facevano servire esclusivamente i loro Premier Grand Cru Classé, Château Lafite, Château Mouton. Io prediligevo il Barolo del '47, mi ero fatto mettere da parte le ultime tre casse di Monfortino facendolo cancellare dalla carta dei vini.
I miei commerci si espandevano anche in nordamerica, anche lì finii per andare spesso, Boston mi piaceva, e New Orleans, ma l'Europa finiva sempre per calamitarmi. Quando sbarcavo a Marsiglia era Nizza la mia prima meta, là mi aspettava una suite con vista sulla leggendaria Promenade des Anglais nell'albergo più teatrale che io abbia mai frequentato, il Negresco! Bizzarro, imponente, sontuoso, esagerato, ma in una maniera giocosa, quasi infantile coi suoi muri rossi e azzurri, i cavalli delle giostre del passato che spuntavano qua e là tra i salottini del bar. Il direttore, offrendomi la consueta bottiglia di champagne di benvenuto, amabilmente mi intratteneva enumerandomi gli illustri ospiti che in questo straordinario albergo avevano abitato, “e voi fra loro ci onorate tutt'ora, Monsieur de Paoli”. Salvador Dalì - mi diceva - fu così entusiasta della nostra Maison che lasciò nell'albo d'oro una dedica che conserviamo con orgoglio: Au coeur des feux et des fastes de la baie des Anges un Palace-Ètoile: Le Negresco. Ma ancora era capace di provare commozione al ricordo della bella danzatrice americana Isadora Duncan, il cui destino fu segnato dalla passione per i modelli esclusivi messi sul mercato dal genio di Ettore Bugatti. Era l'estate del 1927, quando la ballerina di fronte all'Hôtel Negresco salì su una Bugatti 37, il modello che desiderava acquistare. Mentre si avviava lungo la Promenade des Anglais, la lunga sciarpa di seta rossa s'impigliò nel mozzo della ruota e Isadora morì sul colpo strangolata.
Qui, forse un poco favorita dalle quattro coppe di champagne rituali a ogni nostro ritrovarci, la voce del direttore si incrinava mentre, gli occhi lucidi, deferente si inchinava accomiatandosi.
Ecco perché prediligevo il Negresco sopra ogni altro albergo, per la sua spettacolare capacità di mascherare la fiera delle vacuità che lo circondava, rendendo confortevole il mio stato di fuga permanente, contro ogni vento. Ma ancora non mi riusciva di scuotermi di dosso la polvere di marmo...

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